mercoledì 12 febbraio 2020

L'UCCISIONE DI VITTORIO BACHELET DA PARTE DELLE BRIGATE ROSSE (12/02/1980)

Di Redazione.


In quel giorno alle undici e trentacinque del mattino Vittorio Bachelet al termine di una lezione, mentre conversa con la sua assistente Rosy Bindi, venne assassinato da un nucleo armato delle Brigate Rosse, sul mezzanino della scalinata che porta alle aule professori della facoltà di Scienze politiche della Sapienza, colpito con sette proiettili calibro trentadue Winchester; a sparare furono prima Annalaura Braghetti e quindi Bruno Seghetti. Due giorni dopo si celebrarono i funerali nella chiesa di San Roberto Bellarmino di Roma. Uno dei due figli, Giovanni, all'epoca venticinquenne, durante la Preghiera dei fedeli pronuncia queste parole: "Preghiamo per i nostri governanti: per il nostro Presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga. Preghiamo per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri".

L’attacco, questa volta, è nel cuore dell’università. Le Brigate Rosse colpiscono a freddo una delle più alte cariche dello Stato, il professor Vittorio Bachelet, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Quattro colpi all'addome, altri in testa mentre il docente è a terra agonizzante. Commenta a caldo il procuratore capo Giovanni De Matteo: «È il più grave attacco alle istituzioni nella storia della Repubblica italiana». Roma è sconvolta, decine di «gazzelle» e di «pantere» la percorrono in lungo ed in largo. Scattano posti di blocco, retate, perquisizioni. La città universitaria è isolata: nessuno può entrare o uscire senza aver lasciato un proprio documento d’identità. Lo potrà ritirare dopo gli accertamenti. Come una bomba, la notizia rimbalza dal Quirinale al Parlamento, dal Senato a Palazzo Chigi. La Roma politica rivive le ore angosciose della mattina di via Fani. Pertini è attonito, interrompe le udienze, s’infila un cappotto beige, si precipita all’università. Dinanzi al cadavere dell’amico, si commuove, scuote il capo, esce da una porta secondaria, forse per nascondere le lacrime. Lo seguono Amintore Fanfani, Nilde Jotti, Rognoni, Maria Eletta Martini, Luciano Lama, Bruno Trentin, Piccoli, Zaccagnini, Stammati, il sindaco Petroselli. I rituali di sempre: la commozione, lo sdegno, le parole di dolore, l’abbraccio alla vedova, ai figli. Poi la solita, ossessiva domanda: è proprio impossibile fermare questa drammatica escalation? Commenta De Matteo: «Per combattere il terrorismo, ci vogliono mezzi legislativi, di polizia, sostanziali. I decreti approvati recentemente sono solo il primo passo, ne debbono seguire altri». La facoltà di Scienze politiche è assediata, nell'aula magna di Giurisprudenza Luciano Lama parla ad una folla di studenti. È proprio qui che il segretario generale della Cgil, tre anni fa, fu contestato dai giovani. Dice: «Spero che questa volta ci sia una prova di unità tra lavoratori, insegnanti e studenti. In questo palazzo c’è un uomo morto, appartiene anche lui alla nostra famiglia, alla famiglia di coloro che non accettano la violenza. Che si battono per la vita contro la morte». Fuori, la città universitaria brulica di gente: giornalisti, fotografi, cineoperatori premono per sapere qualcosa, le notizie filtrano con il contagocce. La polizia e i carabinieri, barricati nell’androne dove è avvenuto il delitto, non lasciano entrare nessuno. A fatica si ricostruisce il film di questo barbaro assassinio. Soltanto a tarda sera, per esempio, si saprà da una dichiarazione di Rognoni alla Camera, che le BR avrebbero trafugato una borsa che Bachelet teneva sotto il braccio. Sono le undici e trentacinque di una mattinata splendida. Il sole è primaverile, la temperatura è tiepida, nei viali dell’università gli studenti passeggiano con i libri sotto il braccio. Vittorio Bachelet, cinquantaquattro anni, sposato con due figli, professore di Diritto amministrativo e di scienza dell’amministrazione, ha appena concluso la lezione. Esce dall’aula numero undici, dedicata ad Aldo Moro, e si avvia chiacchierando verso le scale che portano all’ingresso della facoltà. Sono con lui la sua assistente Bindi e due studenti. Bachelet sale le scale e si ferma nell’androne a parlare con la professoressa: «Sono indeciso se tornare a casa o fermarmi in ufficio a sbrigare alcuni lavori». Sul pianerottolo e sulle scale che conducono al secondo piano una quindicina di studenti discutono fra di loro. È il momento dell’agguato: i due terroristi sono sulla porta, la tengono aperta, sorvegliano, con disinvoltura, il professore e la piazzetta interna, cioè la via della fuga. Sono un uomo, snello, un metro e settanta, zuccotto in testa, baffi scuri e folti, giaccone sportivo chiaro, venticinque anni circa; e una ragazza, magra, un metro e sessantacinque, capelli ricci, baschetto chiaro, soprabito verde, pallida in volto, sui ventidue anni.

(Da "Il Corriere Della Sera" del 13/02/1980)



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