Di Redazione.
La strage di Via d'Amelio fu un attentato di stampo terroristico mafioso messo in atto il pomeriggio di quel giorno a Palermo in cui persero la vita il giudice antimafia Paolo Borsellino e la sua scorta. L'attentato seguì di quasi due mesi la strage di Capaci, in cui fu ucciso il giudice Giovanni Falcone, segnando uno dei momenti più tragici nella lotta alla mafia. L'esplosione, avvenuta in Via Mariano d'Amelio dove viveva la madre di Borsellino e dalla quale il giudice quella domenica si era recato in visita, avvenne per mezzo di una Fiat 126 contenente circa cento chilogrammi di tritolo. Secondo gli agenti di scorta, Via d'Amelio era una strada pericolosa, tanto che più volte era stato chiesto di procedere preventivamente ad una rimozione dei veicoli parcheggiati davanti alla casa, richiesta però non accolta dal comune di Palermo, come rilasciato in una intervista alla Rai da Antonino Caponnetto. Oltre a Paolo Borsellino morirono gli agenti di scorta Agostino Catalano (caposcorta), Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta ed a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
I MORTI
Paolo Borsellino (1940-1992)
Agostino Catalano (1950-1992)
Emanuela Loi (1967-1992)
Vincenzo Li Muli (1970-1992)
Walter Eddie Cosina (1961-1992)
Claudio Traina (1965-1992)
L'unico sopravvissuto è Antonio Vullo, risvegliatosi in ospedale dopo l'esplosione, in gravi condizioni. La bomba venne radiocomandata a distanza ma non è mai stata definita l'organizzazione della strage, nonostante il giudice fosse a conoscenza di un carico di esplosivi arrivato a Palermo appositamente per essere utilizzato contro di lui. Si sospetta che il detonatore che ha provocato l'esplosione sia stato azionato dal Castello Utveggio. Dopo l'attentato, l' "agenda rossa" di Borsellino, agenda che il giudice portava sempre con sé e dove annotava i dati delle indagini, non venne ritrovata. Sul luogo dell'attentato giunse immediatamente il deputato ed ex giudice Giuseppe Ayala che abitava nelle vicinanze.
LE INDAGINI
Le prime indagini sulla strage di Via d'Amelio vennero coordinate dal Procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra e dai sostituti procuratori Ilda Boccassini e Fausto Cardella (cui si aggiunsero negli anni successivi i sostituti Annamaria Palma, Nino Di Matteo e Carmelo Petralia). Fu così che nel settembre 1992 il gruppo investigativo denominato "Falcone Borsellino" e guidato dal questore Arnaldo La Barbera riuscì ad individuare ed arrestare i pregiudicati Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino (due balordi della Guadagna con precedenti penali per rapina, spaccio di droga e violenza sessuale), i quali si autoaccusarono del furto della Fiat 126 utilizzata nell'attentato: tale circostanza venne confermata dal detenuto Francesco Andriotta, il quale era stato compagno di cella di Scarantino nel carcere di Busto Arsizio ed aveva riferito agli inquirenti di avere ricevuto confidenze dallo stesso Scarantino sull'esecuzione della strage; in particolare Scarantino dichiarò di avere ricevuto l'incarico del furto della Fiat 126 dal cognato Salvatore Profeta e di avere portato l'auto rubata nell'officina di Giuseppe Orofino, dove venne preparata l'autobomba; inoltre Scarantino accusò un gruppo di fuoco del "mandamento" di Santa Maria di Gesù-Guadagna (Pietro Aglieri, lo stesso Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia) di essere gli esecutori della strage di via d'Amelio e riferì di avere assistito per caso ad una riunione ristretta della "Commissione" nella villa del mafioso Giuseppe Calascibetta dove venne decisa l'uccisione di Borsellino. In un successivo interrogatorio, Scarantino dichiarò che alla riunione nella villa di Calascibetta erano presenti anche Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera, entrambi diventati collaboratori di giustizia, i quali però negarono la circostanza e, durante i confronti dinanzi ai pubblici ministeri, accusarono Scarantino di dire falsità nelle sue dichiarazioni. Tali dichiarazioni portarono al primo troncone del processo e nell'ottobre del 1994 si aprì il primo processo sulla strage di via D'Amelio, chiamato "Borsellino Uno", scaturito appunto dalle indagini del gruppo investigativo guidato da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo, che aveva basato le indagini sulle stesse dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, un malavitoso della Guadagna che si era autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 usata nell'attentato. Oltre a Scarantino erano imputati Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto (tecnico telefonico e fratello del mafioso Gaetano, accusato dagli inquirenti di aver manomesso gli impianti telefonici del palazzo di Via D'Amelio per intercettare le telefonate della madre del giudice Borsellino al fine di conoscere i movimenti del magistrato). Durante le udienze, gli avvocati difensori chiamarono a testimoniare un transessuale e due travestiti che affermavano di avere avuto una relazione con Scarantino, al fine di screditarne le dichiarazioni; infine nel luglio 1995 Scarantino ritrattò le sue accuse nel corso di un'intervista telefonica trasmessa da Studio Aperto, dichiarando di avere accusato degli innocenti. Tuttavia i giudici non ritennero veritiera tale ritrattazione e Il 27 gennaio 1996 si concluse il primo processo: i complici di Scarantino, Giuseppe Orofino, Pietro Scotto e Salvatore Profeta (mafioso della Guadagna morto il 19 settembre del 2018), vennero condannati all'ergastolo, a un anno e mezzo di isolamento diurno e a tredici milioni di multa ciascuno. Scarantino venne condannato a diciotto anni di reclusione e a quattro milioni e mezzo di multa. Scarantino e Profeta erano accusati di aver rubato la Fiat 126, di averla riempita di esplosivo e collocata davanti alla casa della madre di Borsellino. Orofino fu accusato di essersi procurato la disponibilità delle targhe e dei documenti di circolazione ed assicurativi falsi che furono apposti sulla 126 per consentirne la sicura circolazione e la collocazione sul luogo della strage. Scotto infine venne accusato di aver manomesso i cavi e gli impianti telefonici del palazzo di Via d'Amelio per intercettare le telefonate della madre di Paolo Borsellino così da conoscere i movimenti del magistrato Nel gennaio del 1999 la Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, presieduta da Giovanni Marletta, giudicò inattendibile Scarantino perché smentito dalle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Giovan Battista Ferrante, assolvendo Pietro Scotto mentre la condanna di Orofino venne ridotta a nove anni, derubricandola in favoreggiamento; la condanna all'ergastolo per Profeta e quella a diciotto anni per Scarantino vennero invece confermate. Nel dicembre 2000 tali condanne e l'assoluzione di Scotto vennero confermate dalla Corte di Cassazione.
I MORTI
Paolo Borsellino (1940-1992)
Agostino Catalano (1950-1992)
Emanuela Loi (1967-1992)
Vincenzo Li Muli (1970-1992)
Walter Eddie Cosina (1961-1992)
Claudio Traina (1965-1992)
L'unico sopravvissuto è Antonio Vullo, risvegliatosi in ospedale dopo l'esplosione, in gravi condizioni. La bomba venne radiocomandata a distanza ma non è mai stata definita l'organizzazione della strage, nonostante il giudice fosse a conoscenza di un carico di esplosivi arrivato a Palermo appositamente per essere utilizzato contro di lui. Si sospetta che il detonatore che ha provocato l'esplosione sia stato azionato dal Castello Utveggio. Dopo l'attentato, l' "agenda rossa" di Borsellino, agenda che il giudice portava sempre con sé e dove annotava i dati delle indagini, non venne ritrovata. Sul luogo dell'attentato giunse immediatamente il deputato ed ex giudice Giuseppe Ayala che abitava nelle vicinanze.
LE INDAGINI
Le prime indagini sulla strage di Via d'Amelio vennero coordinate dal Procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra e dai sostituti procuratori Ilda Boccassini e Fausto Cardella (cui si aggiunsero negli anni successivi i sostituti Annamaria Palma, Nino Di Matteo e Carmelo Petralia). Fu così che nel settembre 1992 il gruppo investigativo denominato "Falcone Borsellino" e guidato dal questore Arnaldo La Barbera riuscì ad individuare ed arrestare i pregiudicati Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino (due balordi della Guadagna con precedenti penali per rapina, spaccio di droga e violenza sessuale), i quali si autoaccusarono del furto della Fiat 126 utilizzata nell'attentato: tale circostanza venne confermata dal detenuto Francesco Andriotta, il quale era stato compagno di cella di Scarantino nel carcere di Busto Arsizio ed aveva riferito agli inquirenti di avere ricevuto confidenze dallo stesso Scarantino sull'esecuzione della strage; in particolare Scarantino dichiarò di avere ricevuto l'incarico del furto della Fiat 126 dal cognato Salvatore Profeta e di avere portato l'auto rubata nell'officina di Giuseppe Orofino, dove venne preparata l'autobomba; inoltre Scarantino accusò un gruppo di fuoco del "mandamento" di Santa Maria di Gesù-Guadagna (Pietro Aglieri, lo stesso Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia) di essere gli esecutori della strage di via d'Amelio e riferì di avere assistito per caso ad una riunione ristretta della "Commissione" nella villa del mafioso Giuseppe Calascibetta dove venne decisa l'uccisione di Borsellino. In un successivo interrogatorio, Scarantino dichiarò che alla riunione nella villa di Calascibetta erano presenti anche Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera, entrambi diventati collaboratori di giustizia, i quali però negarono la circostanza e, durante i confronti dinanzi ai pubblici ministeri, accusarono Scarantino di dire falsità nelle sue dichiarazioni. Tali dichiarazioni portarono al primo troncone del processo e nell'ottobre del 1994 si aprì il primo processo sulla strage di via D'Amelio, chiamato "Borsellino Uno", scaturito appunto dalle indagini del gruppo investigativo guidato da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo, che aveva basato le indagini sulle stesse dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, un malavitoso della Guadagna che si era autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 usata nell'attentato. Oltre a Scarantino erano imputati Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto (tecnico telefonico e fratello del mafioso Gaetano, accusato dagli inquirenti di aver manomesso gli impianti telefonici del palazzo di Via D'Amelio per intercettare le telefonate della madre del giudice Borsellino al fine di conoscere i movimenti del magistrato). Durante le udienze, gli avvocati difensori chiamarono a testimoniare un transessuale e due travestiti che affermavano di avere avuto una relazione con Scarantino, al fine di screditarne le dichiarazioni; infine nel luglio 1995 Scarantino ritrattò le sue accuse nel corso di un'intervista telefonica trasmessa da Studio Aperto, dichiarando di avere accusato degli innocenti. Tuttavia i giudici non ritennero veritiera tale ritrattazione e Il 27 gennaio 1996 si concluse il primo processo: i complici di Scarantino, Giuseppe Orofino, Pietro Scotto e Salvatore Profeta (mafioso della Guadagna morto il 19 settembre del 2018), vennero condannati all'ergastolo, a un anno e mezzo di isolamento diurno e a tredici milioni di multa ciascuno. Scarantino venne condannato a diciotto anni di reclusione e a quattro milioni e mezzo di multa. Scarantino e Profeta erano accusati di aver rubato la Fiat 126, di averla riempita di esplosivo e collocata davanti alla casa della madre di Borsellino. Orofino fu accusato di essersi procurato la disponibilità delle targhe e dei documenti di circolazione ed assicurativi falsi che furono apposti sulla 126 per consentirne la sicura circolazione e la collocazione sul luogo della strage. Scotto infine venne accusato di aver manomesso i cavi e gli impianti telefonici del palazzo di Via d'Amelio per intercettare le telefonate della madre di Paolo Borsellino così da conoscere i movimenti del magistrato Nel gennaio del 1999 la Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, presieduta da Giovanni Marletta, giudicò inattendibile Scarantino perché smentito dalle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia Giovan Battista Ferrante, assolvendo Pietro Scotto mentre la condanna di Orofino venne ridotta a nove anni, derubricandola in favoreggiamento; la condanna all'ergastolo per Profeta e quella a diciotto anni per Scarantino vennero invece confermate. Nel dicembre 2000 tali condanne e l'assoluzione di Scotto vennero confermate dalla Corte di Cassazione.
Nello stesso gennaio del 1996 vennero rinviati a giudizio Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Calascibetta, Giuseppe Graviano e Salvatore Biondino (accusati da Scarantino di aver partecipato alla riunione in cui venne decisa l'uccisione di Borsellino) ma anche Francesco Tagliavia, Cosimo Vernengo, Natale ed Antonino Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso, Salvatore Tomaselli, Giuseppe Romano e Salvatore Vitale (accusati sempre da Scarantino di essersi occupati della preparazione dell'autobomba e del trasferimento della stessa sul luogo dell'attentato), i quali figurarono imputati nel secondo filone del processo per la strage di via d'Amelio (denominato "Borsellino bis"), che iniziò il 14 maggio dello stesso anno. Nel settembre 1998, durante un'udienza, Scarantino ritrattò pubblicamente tutte le sue accuse, sostenendo di avere subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa e di essere stato costretto a collaborare dal questore La Barbera. Tuttavia i giudici non credettero nuovamente a questa ennesima ritrattazione e nel 1999 la Corte d'Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Pietro Falcone, condannò in primo grado Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia all'ergastolo mentre Giuseppe Calascibetta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo e Salvatore Vitale vennero condannati a dieci anni di carcere per associazione mafiosa ma assolti dal reato di strage; stessa cosa per Antonino Gambino, Gaetano Murana e Salvatore Tomaselli, che però furono condannati a otto anni; l'unico assolto fu Giuseppe Romano. Durante il processo d'appello, venne acquisita anche la testimonianza del collaboratore di giustizia Calogero Pulci (ex mafioso di Sommatino e uomo di fiducia del boss Giuseppe "Piddu" Madonia), il quale dichiarò che Gaetano Murana gli avrebbe confidato in carcere di aver partecipato alle fasi esecutive della strage, confermando così le dichiarazioni di Scarantino; inoltre nell'udienza del 23 maggio 2001 testimoniò anche il vicequestore Gioacchino Genchi (ex membro del gruppo investigativo "Falcone-Borsellino" del questore Arnaldo La Barbera), che avanzò l'ipotesi secondo cui il telecomando che provocò l'esplosione venne azionato dal castello Utveggio, sul monte Pellegrino, dove secondo le sue indagini si trovava una sede distaccata del Sisde, notizia che risultò falsa. Infine nel marzo 2002 la Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, presieduta da Francesco Caruso, giudicò attendibile Pulci, condannando all'ergastolo per il reato di strage anche Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana, che in primo grado erano stati invece assolti da questa accusa; vennero anche confermati gli ergastoli inflitti a Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia e le condanne a dieci anni di carcere per Giuseppe Calascibetta e Salvatore Vitale, quelle a otto anni per Salvatore Tomaselli e Antonino Gambino, nonché l'assoluzione per Giuseppe Romano. Nel luglio 2003 tali condanne e l'assoluzione di Romano vennero confermate dalla Corte di Cassazione.
Nel luglio del 2007, a pochi giorni dal quindicesimo anniversario della strage, la Procura di Caltanissetta ha aperto un fascicolo per scoprire se persone legate agli apparati deviati del Sisde potessero aver ricoperto un ruolo nella strage. In quell'occasione fu pubblicata una lettera aperta del fratello del giudice Borsellino, Salvatore, indirizzata all'ex Ministro degli Interni Nicola Mancino. Tale lettera, intitolata 19 luglio 1992: Una strage di stato, ipotizza che l'allora Ministro degli Interni Mancino fosse a conoscenza della causa dell'omicidio di Borsellino. In un passaggio si legge infatti: "Chiedo al senatore Nicola Mancino, del quale ricordo negli anni immediatamente successivi al 1992 una lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo, di sforzare la memoria per raccontarci di che cosa si parlò nell'incontro con Paolo nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte. O spiegarci perché, dopo avere telefonato a mio fratello per incontrarlo mentre stava interrogando Gaspare Mutolo, a sole quarantotto ore dalla strage, gli fece invece incontrare il capo della Polizia Parisi ed il dottor Contrada, incontro dal quale Paolo uscì sconvolto tanto, come raccontò lo stesso Gaspare Mutolo, da tenere in mano due sigarette accese contemporaneamente. In quel colloquio si trova sicuramente la chiave della sua morte e della strage di Via D'Amelio". Gaspare Mutolo era un pentito della mafia, Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde, è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Altri fatti, citati nella lettera di Salvatore Borsellino, misero in questione l'operato del Ministero degli Interni guidato allora da Mancino: la presenza in Via D'Amelio di un poliziotto trasferito alcuni mesi prima alla questura di Firenze perché colluso con un gruppo di spacciatori di droga, e la presenza in Via D'Amelio dell'allora capitano dell'Arma dei Carabinieri Arcangioli, visto allontanarsi dal luogo della strage con in mano la borsa di Paolo Borsellino appena estratta dai rottami della Fiat Croma blindata nella quale sedeva il giudice qualche istante prima dell'esplosione. Secondo i familiari ed i colleghi di Borsellino, questa borsa conteneva un'agenda che il giudice utilizzava per annotare le considerazioni più private sulle sue indagini e colloqui. A fronte delle critiche sul suo operato all'epoca della strage di Via D'Amelio, Mancino sostenne di non ricordarsi di nessun incontro con il giudice nel mese di luglio 1992 e mise in dubbio l'attendibilità del pentito Mutolo. Salvatore Borsellino replicò con un'altra lettera aperta: "In merito alla persistenza delle lacune di memoria del senatore Mancino sull'incontro con Paolo Borsellino del 1° luglio 1992, evidenti dalla sua risposta alle mie dichiarazioni e preoccupanti per chi è stato chiamato alla vicepresidenza del Csm, ritengo mio dovere fargli notare quanto segue. Se è vero che le dichiarazioni di un pentito come Gaspare Mutolo non possano assumere da solo valore probatorio se non suffragate da solidi riscontri è anche vero che di riscontro ne esiste almeno uno, e incontrovertibile, dato che è siglato dallo stesso Paolo Borsellino. Nella sua seconda agenda, quella grigia in possesso dei suoi familiari, che, essendo stata lasciata a casa da Paolo il 19 luglio non ha potuto essere sottratta come quella rossa, Paolo ha annotato: 1° luglio ore 19:30: Mancino. In quanto alla credibilità dello stesso Mutolo, il quale riferisce la frase di Paolo durante l'interrogatorio: devo smettere perché mi ha chiamato il ministro, manco mezz'ora e torno..., devo ricordare al senatore Mancino che è proprio grazie alle dichiarazioni di Gaspare Mutolo che il Dottor Contrada, funzionario del Sisde, ha potuto essere condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione. Inoltre lo stesso Vittorio Aliquò (allora procuratore aggiunto alla procura di Palermo) ha dichiarato di aver accompagnato Paolo fino alla soglia dell'ufficio di Mancino, ed è impossibile credere che lo stesso non possa ricordare di avere incontrato non un qualsiasi magistrato tra i tanti che quel giorno venivano a complimentarsi per la sua nomina, ma un giudice ad estremo rischio di vita che in quei giorni era al centro dell'attenzione di tutti gli Italiani". In seguito alle indagini del consulente Gioacchino Genchi si accertò la presenza di una sede coperta del Sisde sul Monte Pellegrino, che sovrasta Palermo e Via Mariano d'Amelio, all'interno del Castello Utveggio che ospita il Cerisdi, un centro di ricerche e studi manageriali. La circostanza fu scoperta dall'analisi del tabulato telefonico del numero 0337962596, intestato al boss Gaetano Scotto, che chiamò un'utenza fissa del Sisde installata proprio in quel castello. Suo fratello, Pietro Scotto, per conto della società Sielte, compì lavori di manutenzione sull'impianto telefonico della palazzina di via D'Amelio. Lavori necessari, si scoprì successivamente, per intercettare abusivamente la linea telefonica della madre del giudice Borsellino e quindi ottenere la conferma del suo arrivo nel pomeriggio del 19 luglio 1992. Dal castello Utveggio il Sisde scomparve subito dopo l'inizio delle indagini. Quella stagione, poi, fu segnata anche da un'altra discussa vicenda giudiziaria, scaturita in una condanna definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, che vide coinvolto il numero tre del Sisde, Bruno Contrada. A proposito della sede dei servizi sul Monte Pellegrino aveva parlato anche Totò Riina il 22 maggio del 2004, al processo tenutosi a Firenze per la strage di via dei Georgofili.
IL BORSELLINO TER
Il 28 gennaio 1998 iniziò il terzo troncone del processo (denominato Borsellino ter), scaturito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giovan Battista Ferrante. Gli imputati sono: Giuseppe “Piddu” Madonia, Nitto Santapaola, Bernardo Brusca (deceduto), Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Montalto, Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo (classe 1955), Cristoforo Cannella, Domenico Ganci, Stefano Ganci, Francesco Madonia, Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonio Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera e Salvatore Biondo (classe 1956). A processo finiscono anche i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Giovanbattista Ferrante e Giovanni Brusca (accusati di avere provato il funzionamento del telecomando e dei congegni elettrici che servirono per l'esplosione e di avere segnalato telefonicamente gli spostamenti del giudice Borsellino e della scorta poco prima della strage).
Nel 1999 la Corte d'Assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Carmelo Zuccaro, condannò in primo grado all'ergastolo Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo (classe 1955), Cristofaro Cannella, Domenico e Stefano Ganci mentre il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi venne condannato a ventisei anni di carcere, l'altro collaboratore Giovan Battista Ferrante a ventitré anni, Francesco Madonia a diciotto anni, Salvatore Biondo (classe 1956) a dodici anni mentre Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Lucchese, Benedetto Spera e il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca a sedici anni. Nel febbraio del 2002 la Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, presieduta da Giacomo Bodero Maccabeo, modificò la sentenza di primo grado: vennero condannati all'ergastolo Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco Madonia, Giuseppe Montalto, Filippo Graviano, Cristofaro Cannella, Salvatore Biondo (classe 1955) e Salvatore Biondo (classe 1956); Stefano Ganci venne condannato a vent'anni di carcere, Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi a sedici anni per associazione mafiosa (ma assolti dal reato di strage) mentre venne confermata la pena per Agate, Buscemi, Spera e Lucchese; invece i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e Giovan Battista Ferrante ricevettero pene tra i diciotto e i sedici anni. Nel gennaio del 2003 la Corte di Cassazione annullò con rinvio alla Corte d'Assise d'Appello di Catania le assoluzioni dall'accusa di strage per Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella, Benedetto Santapaola e Antonino Giuffrè mentre venne annullata con rinvio anche la condanna per associazione mafiosa per Giuseppe Madonia e Giuseppe Lucchese; le altre condanne e assoluzioni vennero invece confermate. Il 9 luglio del 2003 lo stralcio del Borsellino ter e parte del procedimento per la strage di Capaci, entrambi rinviati dalla Cassazione alla Corte d'assise d'appello di Catania, vennero riuniti in un unico processo perché avevano imputati in comune: vennero ascoltati in aula i nuovi collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè, Ciro Vara e Calogero Pulci (che resero dichiarazioni sulle riunioni delle "Commissioni" provinciale e regionale di Cosa Nostra in cui vennero decise le stragi) e nell'aprile del 2006 la Corte d'Assise d'Appello di Catania condannò all'ergastolo Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi e Benedetto Santapaola mentre, per la strage di Capaci, vennero condannati all'ergastolo anche Giuseppe Montalto, Giuseppe Madonia, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Mariano Agate e Benedetto Spera; Antonino Giuffrè e Stefano Ganci vennero condannati rispettivamente a venti e ventisei anni di carcere; Giuseppe Lucchese venne invece assolto. Nel settembre del 2008 la Corte di Cassazione confermò questa sentenza.
I MANDANTI OCCULTI L'AGENDA ROSSA E SULLA TRATTATIVA TRA LO STATO E LA MAFIA
Nel 1993 la Procura di Caltanissetta aprì un secondo filone d'indagine parallelo per accertare le responsabilità nelle stragi di Capaci e via d'Amelio di eventuali suggeritori o concorrenti esterni all'organizzazione mafiosa (i cosiddetti "mandanti occulti" o "a volto coperto"): nel 1998 vennero iscritti nel registro degli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri sotto le sigle “Alfa” e “Beta” per concorso in strage, soprattutto in seguito alle dichiarazioni de relato del collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi; tuttavia nel 2002 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò l'inchiesta su “Alfa” e “Beta” al termine delle indagini preliminari poiché non si era potuta trovare la conferma delle chiamate de relato. Nel 1994 la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati l'ex funzionario di Polizia e dirigente del Sisde Bruno Contrada (già sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa) per concorso in strage, sulla base della testimonianza dell'allora capitano dei carabinieri Umberto Sinico, il quale, pochi giorni dopo la strage, aveva rivelato ai magistrati di aver saputo da una "fonte segreta" che Contrada era stato fermato in Via d'Amelio dalla prima volante accorsa dopo l'esplosione ma la relazione di servizio che lo attestava era stata distrutta su ordine dei loro superiori; a ciò si aggiunsero nel 1997 le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Elmo (faccendiere implicato in vari traffici illeciti che affermava di aver militato nell'Organizzazione Gladio) il quale sosteneva di essere passato per caso nei pressi di Via d'Amelio dopo l'attentato e di aver visto Contrada tra le fiamme allontanarsi con una borsa: dopo vari tentennamenti, Sinico rivelò finalmente che la sua "fonte segreta" era il funzionario di polizia Roberto Di Legami, il quale negò la circostanza e, per questo motivo, nel 2002 venne rinviato a giudizio per falsa testimonianza, venendo poi assolto con formula piena tre anni dopo. Nel gennaio del 2002 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò la posizione di Contrada perché le prove non erano sufficienti e poiché era stato dimostrato che l'ex funzionario, nelle ore della strage, si trovava in barca a largo di Palermo insieme ad amici. Sempre nel 2002, la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati anche gli imprenditori Antonino Buscemi, Pino Lipari, Giovanni Bini, Antonino Reale, Benedetto D'Agostino e Agostino Catalano (ex titolari di grandi imprese edili collegate alla Calcestruzzi S.p.a. del Gruppo Ferruzzi Gardini che si occupavano dell'illecita gestione dei grandi appalti per conto dell'organizzazione mafiosa) per concorso in strage, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Angelo Siino e Giovanni Brusca: le indagini infatti ipotizzarono un interesse che alcuni ambienti politico imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l'approfondire delle indagini che i giudici Falcone e Borsellino stavano conducendo sul filone "mafia e appalti" insieme al Ros; tuttavia nel 2003 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta archiviò le indagini sugli accusati perché "gli elementi raccolti non appaiono idonei a sostenere l'accusa" in giudizio. Nel febbraio del 2006 la Procura di Caltanissetta aprì un'indagine sulla scomparsa dell'agenda rossa del giudice Borsellino, in seguito alla segnalazione di una fotografia scattata da un giornalista subito dopo l'attentato in cui si vedeva l'allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli che si allontanava da Via d'Amelio con la borsa del giudice Borsellino, che venne ritrovata nell'auto distrutta dall'esplosione dopo alcune ore. Interrogato dai magistrati, Arcangioli (diventato colonnello) sostenne di avere consegnato la borsa ai giudici Vittorio Teresi e Giuseppe Ayala (i quali erano sopraggiunti sul luogo della strage), ma essi negarono la circostanza: per queste ragioni, il colonnello Arcangioli venne inizialmente indagato per false dichiarazioni ma nel febbraio 2008 il giudice per le indagini preliminari lo incriminò anche per il furto dell'agenda rossa e la Procura di Caltanissetta ne chiese il rinvio a giudizio: tuttavia il giudice dell'udienza preliminare rigettò la richiesta, sostenendo che non vi erano le prove per un'incriminazione di Arcangioli poiché la borsa in questione rimase per quattro mesi presso la squadra mobile di Palermo senza essere aperta e quindi l'agenda potrebbe essere stata sottratta in un momento successivo ma avanzò anche l'ipotesi che, al momento dell'attentato, Borsellino avesse l'agenda rossa in mano e non nella borsa (come testimoniato dall'agente sopravvissuto Antonino Vullo) e quindi questa andò distrutta nell'esplosione. Per questi motivi, la Procura di Caltanissetta fece ricorso in Cassazione, che però non lo accolse, sostenendo la tesi del giudice dell'udienza preliminare. Nel 2009, sulla base delle nuove rivelazioni dei collaboratori di giustizia Vito Lo Forte e Francesco Marullo, la Direzione Nazionale Antimafia guidata da Pietro Grasso identificò "faccia da mostro" (fantomatico killer con il volto deturpato al soldo di mafia e servizi segreti deviati) in Giovanni Aiello, un ex poliziotto che aveva prestato servizio in Sicilia e poi era stato congedato perché sfigurato ad una guancia da una fucilata: sempre nello stesso anno, la Procura di Caltanissetta iscrisse Aiello nel registro degli indagati per concorso nelle stragi di Capaci e Via d'Amelio (ma anche per il fallito attentato all'Addaura) poiché appunto i due collaboranti avevano parlato di un suo presunto ruolo nei tre attentati; l'indagine venne però archiviata nel 2012 dal giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta perché non si trovarono conferme al racconto di Lo Forte e Marullo, pur sostenendo che "molteplici altre circostanze inducono a identificare il soggetto di cui hanno parlato i collaboratori Lo Forte e Marullo nella persona dell'odierno indagato". Nel 2010 la Procura di Caltanissetta iscrisse nel registro degli indagati l'ex funzionario del Sisde Lorenzo Narracci (braccio destro di Bruno Contrada) per concorso in strage, in quanto il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza l'avrebbe riconosciuto fotograficamente come l'uomo misterioso presente nel garage dove venne preparata l'autobomba; Narracci si difese affermando che nelle ore della strage si trovava ad una gita in barca a largo di Palermo insieme al collega Contrada ed altri amici e nel 2016 le accuse vennero archiviate poiché il riconoscimento effettuato da Spatuzza non era certo.
NUOVE INDAGINI E NUOVO PROCESSO
Nel 2008 il mafioso Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e ricostruì le dinamiche della strage di Via D'Amelio, facendo emergere il ruolo fondamentale avuto dalla cosca di Brancaccio nell'esecuzione dell'attentato e smentendo il pentito Scarantino. Infatti Spatuzza dichiarò che era stato lui a rubare la Fiat 126 e non Scarantino. Un altro pentito, Fabio Trachina, sostenne che sarebbe stato il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano a premere il pulsante del telecomando che provocò l'esplosione, appostato dietro un muretto in fondo a Via d'Amelio. Dopo lunghe e minuziose indagini cadde definitivamente l’ipotesi di Castello Utveggio quale luogo da dove sarebbe stato premuto il telecomando. Quindi, dopo anni di indagini, il 22 marzo del 2013 si aprì il nuovo processo per la strage di via d'Amelio. Davanti alla Corte d'Assise di Caltanissetta ci saranno gli imputati Vittorio Tutino, Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta, Calogero Pulci, ed il boss Salvatore Madonia. Madonia e Tutino furono accusati di aver assunto un ruolo importante nella preparazione della strage, mentre gli ex pentiti Pulci, Andriotta e Scarantino furono incriminati per calunnia aggravata, in quanto a seguito delle false dichiarazioni rese furono arrestate sette persone che risultarono poi non colpevoli.
LA STRAGE NEL QUADRO DELLA TRATTATIVA STATO MAFIA
Nel luglio del 2009, in occasione del diciassettesimo anniversario della strage, Massimo Ciancimino annunciò che avrebbe consegnato ai magistrati il "papello", una sola pagina a firma di Totò Riina che conterrebbe le condizioni poste dalla mafia allo Stato. Nella stessa occasione, Totò Riina ha riferito al suo avvocato di non essere coinvolto nella strage di via d'Amelio. Il boss ha dichiarato parlando al suo legale: "L'hanno ammazzato loro. Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Io sono stanco di fare il parafulmine d'Italia". Il legale poi diffuse una nota che interpreò queste dichiarazioni: "Il signor Riina ha voluto, tramite me, rappresentare la sua convinzione: cioè che l'attentato a Borsellino fu opera di personaggi legati alle istituzioni". La stessa nota, tuttavia, smentisce che Riina abbia partecipato ad una trattativa fra lo Stato e la mafia: "Con riferimento alla cosiddetta trattativa che sarebbe stata condotta tramite i signori Ciancimino, Vito e Massimo, Riina intende far presente che già diversi anni fa era stata la sua difesa a chiedere che venisse esaminato in aula Massimo Ciancimino, senza però ottenere tale prova, in maniera inspiegabile ancor più alla luce degli odierni approfondimenti". L'avvocato, intervistato dal quotidiano La Repubblica dichiarò: "Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".
Il Gip di Caltanissetta, Alessandra Bonaventura Giunta, ritenne che la trattativa stato mafia ci fosse stata e che Paolo Borsellino venne ucciso perché secondo il boss Totò Riina, ostacolava questa trattativa: "deve ritenersi un dato acquisito quello secondo cui a partire dai primi giorni del mese di giugno del 1992 fu avviata la cosiddetta trattativa tra appartenenti alle istituzioni e l'organizzazione criminale Cosa nostra".
LE DICHIARAZIONI DEI BOSS E IL BORSELLINO QUATER
Nel 2008 il mafioso Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e ricostruì le dinamiche della strage di Via D'Amelio, facendo emergere il ruolo fondamentale avuto dalla cosca di Brancaccio nell'esecuzione dell'attentato e smentendo il pentito Scarantino. Infatti Spatuzza dichiarò che era stato lui a rubare la Fiat 126 e non Scarantino. Un altro pentito, Fabio Trachina, sostenne che sarebbe stato il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano a premere il pulsante del telecomando che provocò l'esplosione, appostato dietro un muretto in fondo a Via d'Amelio. Dopo lunghe e minuziose indagini cadde definitivamente l’ipotesi di Castello Utveggio quale luogo da dove sarebbe stato premuto il telecomando. Quindi, dopo anni di indagini, il 22 marzo del 2013 si aprì il nuovo processo per la strage di via d'Amelio. Davanti alla Corte d'Assise di Caltanissetta ci saranno gli imputati Vittorio Tutino, Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta, Calogero Pulci, ed il boss Salvatore Madonia. Madonia e Tutino furono accusati di aver assunto un ruolo importante nella preparazione della strage, mentre gli ex pentiti Pulci, Andriotta e Scarantino furono incriminati per calunnia aggravata, in quanto a seguito delle false dichiarazioni rese furono arrestate sette persone che risultarono poi non colpevoli.
LA STRAGE NEL QUADRO DELLA TRATTATIVA STATO MAFIA
Nel luglio del 2009, in occasione del diciassettesimo anniversario della strage, Massimo Ciancimino annunciò che avrebbe consegnato ai magistrati il "papello", una sola pagina a firma di Totò Riina che conterrebbe le condizioni poste dalla mafia allo Stato. Nella stessa occasione, Totò Riina ha riferito al suo avvocato di non essere coinvolto nella strage di via d'Amelio. Il boss ha dichiarato parlando al suo legale: "L'hanno ammazzato loro. Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Io sono stanco di fare il parafulmine d'Italia". Il legale poi diffuse una nota che interpreò queste dichiarazioni: "Il signor Riina ha voluto, tramite me, rappresentare la sua convinzione: cioè che l'attentato a Borsellino fu opera di personaggi legati alle istituzioni". La stessa nota, tuttavia, smentisce che Riina abbia partecipato ad una trattativa fra lo Stato e la mafia: "Con riferimento alla cosiddetta trattativa che sarebbe stata condotta tramite i signori Ciancimino, Vito e Massimo, Riina intende far presente che già diversi anni fa era stata la sua difesa a chiedere che venisse esaminato in aula Massimo Ciancimino, senza però ottenere tale prova, in maniera inspiegabile ancor più alla luce degli odierni approfondimenti". L'avvocato, intervistato dal quotidiano La Repubblica dichiarò: "Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".
Il Gip di Caltanissetta, Alessandra Bonaventura Giunta, ritenne che la trattativa stato mafia ci fosse stata e che Paolo Borsellino venne ucciso perché secondo il boss Totò Riina, ostacolava questa trattativa: "deve ritenersi un dato acquisito quello secondo cui a partire dai primi giorni del mese di giugno del 1992 fu avviata la cosiddetta trattativa tra appartenenti alle istituzioni e l'organizzazione criminale Cosa nostra".
LE DICHIARAZIONI DEI BOSS E IL BORSELLINO QUATER
Come già detto nel giugno del 2008 Gaspare Spatuzza (ex mafioso di Brancaccio) iniziò a collaborare con la giustizia e si autoaccusò del furto della Fiat 126 utilizzata nell'attentato, smentendo la versione data dai collaboratori di giustizia Scarantino e Candura: in particolare Spatuzza dichiarò di avere compiuto il furto dell'auto la notte dell'8 luglio 1992 (dieci giorni prima dell'attentato) insieme al suo sodale Vittorio Tutino, su incarico di Cristofaro Cannella e Giuseppe Graviano (capo della Famiglia di Brancaccio); Spatuzza riferì anche che portò l'auto rubata nell'officina di tale Maurizio Costa (dove vennero riparati i freni e la frizione danneggiati) e poi il 18 luglio (il giorno prima della strage) in un altro garage vicino a Via d'Amelio, dove Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia provvidero a preparare l'innesco e l'esplosivo all'interno dell'auto. In seguito a queste dichiarazioni, la Procura di Caltanissetta riaprì le indagini sulla strage di via d'Amelio: nel 2009 gli ex collaboratori di giustizia Scarantino, Candura e Andriotta dichiararono ai magistrati di essere stati costretti a collaborare dal questore La Barbera e dal suo gruppo investigativo, che li sottoposero a forti pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce per spingerli a dichiarare il falso, mentre l'ex collaboratore Calogero Pulci sostenne di avere agito di sua iniziativa perché, a suo dire, voleva aiutare gli inquirenti. Nel 2009, in seguito alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino che riguardavano l'inchiesta sulla cosiddetta "trattativa Stato Mafia", le Procure di Caltanissetta e Palermo ascoltarono le testimonianze di Liliana Ferraro (ex vice direttore degli affari penali presso il Ministero della Giustizia) e dell'ex ministro Claudio Martelli, i quali confermarono di essere stati avvicinati dall'allora colonnello dei carabinieri Mario Mori che chiedeva "copertura politica" per i suoi contatti con Vito Ciancimino al fine di fermare le stragi; in particolare la Ferraro dichiarò che ne parlò con il giudice Borsellino, che si dimostrò già informato dei contatti tra Ciancimino e i carabinieri. Infatti l'inchiesta fece emergere che il 25 giugno 1992 (circa un mese prima di essere ucciso) Borsellino s'incontrò con il colonnello Mori e con l'allora capitano Giuseppe De Donno: secondo quanto dichiarato da Mori e De Donno ai magistrati, durante quell'incontro Borsellino si limitò a parlare con loro sulle indagini dell'inchiesta "mafia e appalti". Nello stesso periodo, Agnese Piraino Leto (vedova di Borsellino) dichiarò ai magistrati che, qualche giorno prima di essere ucciso, il marito le confidò che il generale dei carabinieri Antonio Subranni (diretto superiore del colonnello Mori) era vicino ad ambienti mafiosi e che c'era un contatto tra mafia e parti deviate dello Stato. I magistrati di Palermo e Caltanissetta acquisirono anche le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca nel processo "Borsellino ter", in cui affermavano che Salvatore Riina fece sospendere la preparazione dell'attentato contro l'onorevole Calogero Mannino ed insistette particolarmente per accelerare l'uccisione di Borsellino ed eseguirla con modalità eclatanti. Nell'aprile del 2011 anche Fabio Tranchina (ex uomo di fiducia di Giuseppe Graviano) iniziò a collaborare con la giustizia, confermando le dichiarazioni di Spatuzza: infatti Tranchina riferì che una settimana prima della strage aveva compiuto due appostamenti in via d'Amelio insieme a Graviano, il quale gli chiese anche di procurargli un appartamento nelle vicinanze ma poi gli disse che aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto in fondo a Via d'Amelio per azionare il telecomando che provocò l'esplosione. Per queste ragioni, il 27 ottobre dello stesso anno la Corte d'Assise d'Appello di Catania dispose la sospensione della pena per Salvatore Profeta, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Vincenzo Scarantino, che erano stati condannati nei processi "Borsellino uno" e "Borsellino bis". Il 2 marzo del 2012 il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta emise un'ordinanza di custodia cautelare per Vittorio Tutino, Calogero Pulci (accusato di calunnia), Salvatore Madonia (accusato di essere stato un componente della "Commissione provinciale" di Cosa Nostra in qualità di reggente del mandamento di Resuttana e quindi di avere avallato la strage) e Salvatore Vitale (accusato da Spatuzza di avere messo a disposizione il suo maneggio per la consegna delle targhe rubate da apporre sull'autobomba per evitarne l'identificazione e di avere controllato le visite del giudice Borsellino alla madre poiché abitava nello stesso palazzo in via d'Amelio): tuttavia il procedimento a carico di Vitale venne sospeso per via delle sue gravi condizioni di salute, che lo portarono alla morte qualche tempo dopo; infine, nel novembre dello stesso anno, la Procura di Caltanissetta chiuse le indagini sulla strage. Il 13 marzo del 2013 il giudice dell'udienza preliminare di Caltanissetta condannò con il rito abbreviato i collaboratori Spatuzza e Tranchina rispettivamente a quindici e dieci anni di carcere per il loro ruolo avuto nella strage, mentre l'ex collaboratore Salvatore Candura venne condannato a dodici anni per calunnia aggravata; qualche giorno dopo si aprì il quarto processo per la strage di Via d'Amelio (denominato "Borsellino quater"), che vedeva imputati Vittorio Tutino, Salvatore Madonia e gli ex collaboratori Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Nell'aprile del 2017 la Corte d'assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Antonio Balsamo, condannò in primo grado Tutino e Madonia all'ergastolo per il reato di strage mentre gli ex collaboratori Andriotta e Pulci vennero condannati a dieci anni di carcere per calunnia; il reato di Scarantino venne invece prescritto grazie alla concessione delle attenuanti per essere stato indotto a rendere false dichiarazioni. Il 15 novembre 2019 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta, presieduta dal giudice Andreina Occhipinti, confermò le condanne di primo grado e la prescrizione per Scarantino.
AGGIORNAMENTO DEL 28/10/2011
La Corte d'appello di Catania respinge la richiesta di revisione del processo per la strage di Via d'Amelio del 19 luglio 1992 e sospende però l'esecuzione della pena per otto imputati, sette dei quali condannati all'ergastolo. L'istanza di revisione, presentata dal pg di Caltanissetta Roberto Scarpinato, è nata dalle nuove rivelazioni di Gaspare Spatuzza che ha chiamato in causa i fratelli Graviano di Brancaccio, e riguardava Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Gaetano Scotto, Gaetano Murana (condannati all'ergastolo) e Vincenzo Scarantino, il collaboratore di giustizia la cui sentenza a 18 anni è diventata definitiva nonostante la ritrattazione. L'istanza di revisione riguardava anche Salvatore Candura, Salvatore Tomaselli e Giuseppe Orofino (condannati a pene fino a 9 anni) che hanno già espiato la condanna. Tutti sono stati scarcerati tranne Scotto, che resta in carcere per scontare altre condanne, e Profeta, che tornerà in libertà nelle prossime ore. "Sono confuso. Non so come pagare, con questi soldi non sono pratico. Io sono rimasto alle lire": queste le prime parole di Murana fuori dal carcere. Murana ha chiamato il difensore, Rosalba Di Gregorio, appena libero. "Sono felice", le ha detto. La versione di Scarantino determinante per le condanne all'ergastolo dei sette è stata ritenuta totalmente inattendibile dalle nuove indagini avviate dopo la collaborazione con la giustizia di Spatuzza e a Caltanissetta si procede anche contro tre poliziotti del gruppo investigativo sulle stragi che avrebbero avallato la falsa ricostruzione di Scarantino. Secondo i giudici di Catania, però, occorre che ci sia una nuova sentenza, quantomeno a carico di Scarantino per il reato di calunnia nei confronti degli imputati condannati, prima di potere revisionare la sentenza. Intanto, però, al di là della questione tecnica, il verdetto di Catania segna un primo determinante traguardo sulla strada della verità sull'eccidio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta. In sette, ad eccezione di Scotto saranno liberi entro domani. Scotto ha infatti un'altra condanna per droga e per tentato omicidio. L'ex pentito Scarantino ha finito di espiare una condanna a 8 anni inflittagli a Roma per la calunnia nei confronti dei pm che indagarono sulla strage a partire dalla sua confessione e un'altra a 9 anni per droga. Il primo dei condannati ora liberati ad essere stato arrestato è Salvatore Profeta, condotto in carcere nel 1993. Gli altri erano stati arrestati nel 1994. La Mattina e Gambino rimasero latitanti fino al 1997 quando furono catturati insieme con il boss Pietro Aglieri.
AGGIORNAMENTO DEL 12/03/2014
Un nemico come lui lo Stato non l’avrà mai più. Totò Riina torna a vantarsi delle proprie gesta stragiste svelando, stavolta, un particolare inedito sull’attentato di Via D’Amelio. "Avemmo un colpo di genio", dice ad Alberto Lorusso, criminale pugliese che col capomafia di Corleone ha condiviso per mesi l’ora d’aria nel carcere milanese di Opera. E racconta di come i mafiosi avrebbero piazzato nel citofono del palazzo della madre del giudice Paolo Borsellino il telecomando usato per azionare l’autobomba imbottita di tritolo, usata per far saltare in aria il magistrato e gli agenti della scorta. Una rivelazione che ha scioccato gli investigatori che da mesi continuano a riascoltare le conversazioni intercettate dei due detenuti. La registrazione del dialogo è stata trasmessa dalla Procura di Palermo ai colleghi di Caltanissetta che hanno riaperto le indagini sulla strage di via D’Amelio. Nel dialogo Riina, oltre a riaffermare il suo ruolo di capo assoluto dei clan, si attribuisce il "merito" dell’organizzazione tecnica di un attentato difficile, che però non poteva fallire. Ed a Lorusso, come sempre pronto ad ascoltarlo con attenzione, racconta di come riuscirono a superare gli ostacoli tecnici che si presentavano. I boss avrebbero piazzato nel citofono del palazzo di via D’Amelio una piccolissima trasmittente che doveva essere attivata da lontano e dare l’impulso a una ricevente piazzata vicino all'ordigno ed in grado di fare scattare il detonatore. Così quando il commando fu sicuro che il bersaglio era sul posto, che Borsellino dunque, era arrivato sotto casa della madre e stava dirigendosi al portone per suonare, qualcuno (Riina non dice chi) avrebbe azionato il congegno. La conversazione ed il racconto del capomafia non sono chiarissimi: gli inquirenti stanno cercando di capire con esattezza i passaggi tecnici spiegati dal boss. Sulla serietà della pista gli investigatori sembrano cauti. Per alcuni la rivelazione aprirebbe scenari nuovi sull'eccidio, confermando che dietro la strage c’era un personaggio esterno a Cosa nostra, di una figura misteriosa parla anche il pentito Gaspare Spatuzza, e dotato di notevoli competenze tecniche. Inoltre la versione del padrino di Corleone farebbe rileggere sotto un’altra luce l’attività di manutenzione a cui venne sottoposto il citofono dello stabile di Via D’Amelio prima dell’attentato. Ma la storia di Riina non convincerebbe tutti: per alcuni investigatori si tratterebbe dell’ennesimo sproloquio di un boss ormai ultraottantenne in preda a manie di grandezza e pronto a raccontare al compagno di socialità anche cose lontane dal vero. Una interpretazione che sminuirebbe complessivamente la portata delle parole del capomafia e delle minacce da lui lanciate durante i colloqui con Lorusso. Il padrino si dice pronto a organizzare un nuovo attentato in grande stile ai danni dei magistrati. "Facciamolo grosso", dice Riina alludendo a un gesto eclatante che avrebbe dovuto colpire il pm palermitano Nino Di Matteo a cui si doveva far fare "la fine del tonno" come a Falcone. Sta agli inquirenti verificare la versione di Riina e la sua compatibilità con verità ormai accertate processualmente, come quella raccontata dal pentito Fabio Tranchina, il picciotto incaricato dal boss Giuseppe Graviano di comprare i telecomandi usati per la strage. Il collaboratore ha indicato nel boss di Brancaccio l’uomo che, nascosto in un giardino vicino al palazzo della madre di Borsellino, azionò i congegni che fecero saltare in aria la 126 col tritolo.
Nell'aprile 2017 la Corte d'assise di Caltanissetta, presieduta dal giudice Antonio Balsamo, condannò in primo grado Tutino e Madonia all'ergastolo per il reato di strage mentre gli ex collaboratori Andriotta e Pulci vennero condannati a dieci anni di carcere per calunnia; il reato di Scarantino venne invece prescritto grazie alla concessione delle attenuanti per essere stato indotto a rendere false dichiarazioni. Il 15 novembre 2019 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta, presieduta dal giudice Andreina Occhipinti, confermò le condanne di primo grado e la prescrizione per Scarantino.
PROCESSO SUL PRESUNTO DEPISTAGGIO DELLE INDAGINI
Nel luglio 2018 la Procura di Caltanissetta chiese il rinvio a giudizio per il funzionario di polizia Mario Bo e per gli ispettori Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, con l'accusa di calunnia in concorso; i tre infatti avevano fatto parte del gruppo investigativo "Falcone-Borsellino" guidato dal questore Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002) che si occupò delle prime indagini sulla strage di via d'Amelio e avevano gestito la controversa collaborazione con la giustizia di Vincenzo Scarantino: secondo le indagini della Procura di Caltanissetta e le prove emerse durante il processo di primo grado denominato "Borsellino quater", i tre poliziotti avrebbero indotto Scarantino a rendere false dichiarazioni sottoponendolo a minacce, maltrattamenti e pressioni psicologiche. Il processo iniziò il 5 novembre dello stesso anno dinanzi al Tribunale di Caltanissetta.
AGGIORNAMENTO DELL'11/06/2019
AGGIORNAMENTO DEL 19/07/2020
Il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Il 19 luglio del 1992 una terribile esplosione in via D’Amelio a Palermo spezzava la vita di Paolo Borsellino e di cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Desidero ricordarli, rinnovando vicinanza e partecipazione al lutto inestinguibile delle loro famiglie. A distanza di tanti anni non si attenuano il dolore, lo sdegno e l’angoscia per quell’efferato attentato contro un magistrato simbolo dell’impegno contro la mafia, che condivise con l’amico inseparabile Giovanni Falcone ideali, obiettivi e metodi investigativi di grande successo. Borsellino rappresentava, con la sua personalità e i suoi comportamenti, tutto ciò che la mafia e i suoi accoliti detestano e temono di più: coraggio, determinazione, incorruttibilità, senso dello Stato, conoscenza dei fenomeni criminali, competenza professionale. Accrescevano la sua fama di magistrato esemplare la semplicità e la capacità di fare squadra, lontano da personalismi e desideri di protagonismo. Vi si aggiungeva la ferma volontà di andare avanti, di non arrendersi anche di fronte a rischi, ad attacchi, a incomprensioni e ostilità. Sono particolarmente vicino ai figli di Paolo Borsellino in questa triste ricorrenza. Come sperimentano quotidianamente, nulla può colmare una perdita così grave. La limpida figura del giudice Borsellino, che affermava, che chi muore per la legalità, la giustizia, la liberazione dal giogo della criminalità, non muore invano, continuerà a indicare ai magistrati, ai cittadini, ai giovani la via del coraggio, dell’intransigenza morale, della fedeltà autentica ai valori della Repubblica".
AGGIORNAMENTO DEL 19/07/2021
Il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Il 19 luglio del 1992 una terribile esplosione in via D’Amelio a Palermo spezzava la vita di Paolo Borsellino e di cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Desidero ricordarli, rinnovando vicinanza e partecipazione al lutto inestinguibile delle loro famiglie. A distanza di tanti anni non si attenuano il dolore, lo sdegno e l’angoscia per quell’efferato attentato contro un magistrato simbolo dell’impegno contro la mafia, che condivise con l’amico inseparabile Giovanni Falcone ideali, obiettivi e metodi investigativi di grande successo. Borsellino rappresentava, con la sua personalità e i suoi comportamenti, tutto ciò che la mafia e i suoi accoliti detestano e temono di più: coraggio, determinazione, incorruttibilità, senso dello Stato, conoscenza dei fenomeni criminali, competenza professionale. Accrescevano la sua fama di magistrato esemplare la semplicità e la capacità di fare squadra, lontano da personalismi e desideri di protagonismo. Vi si aggiungeva la ferma volontà di andare avanti, di non arrendersi anche di fronte a rischi, ad attacchi, a incomprensioni e ostilità. Sono particolarmente vicino ai figli di Paolo Borsellino in questa triste ricorrenza. Come sperimentano quotidianamente, nulla può colmare una perdita così grave. La limpida figura del giudice Borsellino, che affermava, che chi muore per la legalità, la giustizia, la liberazione dal giogo della criminalità, non muore invano, continuerà a indicare ai magistrati, ai cittadini, ai giovani la via del coraggio, dell’intransigenza morale, della fedeltà autentica ai valori della Repubblica".
AGGIORNAMENTO DEL 19/07/2021
"L'attentato di via D'Amelio, ventinove anni or sono, venne concepito e messo in atto con brutale disumanità. Paolo Borsellino pagò con la vita la propria rettitudine e la coerenza di uomo delle Istituzioni. Con lui morirono gli agenti della scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. La memoria di quella strage, che ha segnato così profondamente la storia repubblicana, suscita tuttora una immutata commozione, e insieme rinnova la consapevolezza della necessità dell'impegno comune per sradicare le mafie, per contrastare l'illegalità, per spezzare connivenze e complicità che favoriscono la presenza criminale". Lo scrive in un messaggio il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. "Paolo Borsellino, e come lui Giovanni Falcone - prosegue -, sapevano bene che la lotta alla mafia richiede una forte collaborazione tra Istituzioni e società. Per questo si sono spesi con ogni energia. Da magistrati hanno espresso altissime qualità professionali. Hanno intrapreso strade nuove, più efficaci, nelle indagini e nei processi. Hanno testimoniato, da uomini dello Stato, come le mafie possono essere sconfitte, hanno dimostrato che la loro organizzazione, i loro piani possono essere svelati e che i loro capi e i loro sicari possono essere assicurati alla giustizia. Per questo sono stati uccisi. Non si sono mai rassegnati e si sono battuti per la dignità della nostra vita civile. Sono stati e saranno sempre, un esempio per i cittadini e per i giovani. Tanti importanti risultati nella lotta alle mafie si sono ottenuti negli anni grazie al lavoro di Borsellino e Falcone. La Repubblica è vicina ai familiari di Borsellino e ai familiari dei servitori dello Stato, la cui vita è stata crudelmente spezzata per colpire le libertà di tutti. Onorare quei sacrifici, promuovendo la legalità e la civiltà, è un dovere morale che avvertiamo nelle nostre coscienze" sottolinea il Capo dello Stato. "Quando commemoriamo uomini come Paolo Borsellino, il dovere della memoria non deve essere fine a sé stesso, ma deve sempre richiamare il valore di una salda responsabilità civile, ispirata ai principi della Carta costituzionale, che faccia di noi una comunità sempre più unita nella solidarietà, nella giustizia e nel progetto, irrinunciabile, di un Paese finalmente libero dalle mafie". Lo afferma il Presidente della Camera Roberto Fico nell'anniversario della strage di Via D'Amelio.
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