Di Giampaolo Carboni.
La morte di Benito Mussolini avvenne in questo giorno a Giulino, frazione del comune di Tremezzina, in provincia di Como, dove fu ucciso con colpi di arma da fuoco insieme all'amante Clara Petacci; gli altri gerarchi fascisti con i quali era stato catturato furono invece fucilati a Dongo, luogo della sua cattura. Catturato il giorno precedente dai partigiani della cinquantaduesima Brigata Garibaldi "Luigi Clerici" comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, il capo del fascismo e della Repubblica Sociale Italiana si trovava in stato di arresto. In una serie di cinque articoli su l'Unità del marzo 1947, il comandante partigiano Walter Audisio, detto Colonnello Valerio, ha raccontato di essere stato l'unico autore dell'uccisione, nell'ambito di una missione cui avevano partecipato anche i partigiani Aldo Lampredi "Guido Conti" e Michele Moretti "Pietro Gatti" per dare esecuzione all'Ultimatum del 19 aprile 1945 e all'articolo 5 del Decreto per l'amministrazione della giustizia, approvato a Milano il 25 aprile dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai). La responsabilità dell'esecuzione fu poi rivendicata dallo stesso Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia con il comunicato del 29 aprile 1945.
Il 18 aprile 1945, nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana e sperando ancora in un sussulto dei suoi con la possibilità di trattare un accordo di resa a condizione, Mussolini abbandonò l'isolata sede di Palazzo Feltrinelli a Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda, e si trasferì a Milano, giungendovi in serata e prendendo alloggio presso la prefettura; il giorno precedente aveva discusso nell'ultimo consiglio dei ministri sulla possibile resistenza nel Ridotto della Valtellina. Il 20 aprile, nei locali della prefettura dove era ormai rinchiuso, concesse un incontro al giornalista Gian Gaetano Cabella, direttore del giornale Popolo di Alessandria, e, alla richiesta del giornalista di potergli rivolgere qualche domanda, lo sorprese, rispondendo: "Intervista o testamento?". Fu l'ultima intervista rilasciata da Mussolini, che la rilesse, corresse e siglò il 22 aprile. Sempre il 22 aprile, nel cortile della prefettura, pronunciò l'ultimo discorso a un centinaio di ufficiali della Guardia Repubblicana, concludendo: "Se la Patria è perduta, è inutile vivere". La sera incontrò Carlo Silvestri e gli consegnò una dichiarazione per il comitato esecutivo del Psiup in cui chiedeva che la Rsi finisse in mani repubblicane e non monarchiche, socialiste e non borghesi. Il 23 aprile le truppe alleate entrarono a Parma, e da Milano non furono più possibili comunicazioni telefoniche con Cremona e Mantova; il giorno seguente fu liberata Genova e il console tedesco Wolf si fece vivo per richiedere al ministro delle finanze Domenico Pellegrini il versamento anticipato di dieci milioni di lire, quota mensile per le spese di guerra del mese seguente. Il 25 aprile mattina gli operai iniziarono a occupare le fabbriche di Sesto San Giovanni alla periferia di Milano. Nel pomeriggio del 25, con la mediazione del cardinale-arcivescovo di Milano Alfredo Ildefonso Schuster, si svolse nell'arcivescovado un incontro decisivo tra la delegazione fascista composta da Mussolini stesso, il sottosegretario Barracu, i ministri Zerbino e Graziani (l'industriale Gian Riccardo Cella, l'ex prefetto di Milano ed ex ministro delle corporazioni Mario Tiengo e il prefetto di Milano Mario Bassi non parteciparono direttamente ai colloqui) e una delegazione del Cln composta dal generale Cadorna, dall'avvocato democristiano Marazza, dal rappresentante del Partito d'Azione Riccardo Lombardi e dal liberale Giustino Arpesani. Sandro Pertini arrivò in ritardo a riunione conclusa. A Milano era intanto in corso lo sciopero generale e l'ordine dell'insurrezione generale era imminente. Durante l'incontro, Mussolini apprese che i tedeschi avevano già avviato trattative separate con il Cln: l'unica proposta che ricevette dai suoi interlocutori fu quindi la "resa incondizionata". Un accordo al momento sembrava possibile: furono offerte garanzie per i fascisti e per i loro familiari, ma i repubblichini, anche se senza vie d'uscita, non vollero essere i primi a firmare la resa per essere poi tacciati di tradimento. Si riservarono di dare risposta entro un'ora, lasciando l'arcivescovado e ritirandosi in prefettura, ma non fecero ritorno. In serata, verso le venti, mentre i capi della Resistenza, dopo aver atteso invano una risposta, davano l'ordine dell'insurrezione generale, Mussolini, salutati gli ultimi fedeli, lasciò Milano e partì in direzione di Como. Assieme ai fascisti si trovava il tenente Birzer con i suoi uomini, incaricato da Hitler di scortare Mussolini ovunque andasse.
Como rappresentava per Mussolini una meta che offriva diverse possibilità: anzitutto, la città lariana e la sponda occidentale del suo lago erano considerate una zona marginale relativamente protetta e con una limitata presenza partigiana. Qui era possibile trovare un rifugio sicuro e appartato e nascondersi sino a quando gli Alleati, al loro arrivo, avrebbero scoperto il nascondiglio: sarebbe quindi stato possibile consegnarsi loro con garanzie; questo era l'obiettivo principale secondo la testimonianza di Renato Celio, prefetto di Como. In alternativa, Como costituiva anche un punto di passaggio per raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane Alessandro Pavolini prospettava di costituire un estremo baluardo di resistenza, il Ridotto Alpino Repubblicano, e dove erano affluiti tremila uomini del generale Onori ed erano attesi ancora mille uomini del maggiore Vanna. L'idea però era osteggiata, oltre che dai vertici militari tedeschi, anche dal generale Niccolò Nicchiarelli, comandante della Gnr, e dal ministro Rodolfo Graziani. Ancora, sembrava possibile costituire un estremo baluardo di difesa proprio nella città lariana, facendo convergere su di essa tutte le forze residue e resistere a oltranza per trattare poi in extremis con gli Alleati al loro arrivo. In effetti a Como si concentrarono numerose formazioni provenienti dalle zone circostanti, condotte da Alessandro Pavolini. L'afflusso durò tutta la notte e parte della mattinata. Alcune fonti parlano di quarantamila fascisti, mentre Giorgio Bocca riduce il numero dei militi a soli seimila settemila uomini che, peraltro in giornata, si dispersero dopo che il Duce decise di congedarli, sciogliendo dalla fedeltà al giuramento i suoi fedeli e partendo di nascosto con i ministri alle tre del mattino. Infine, la vicinanza con la Svizzera poteva offrire un'estrema possibile via di fuga, anche se Mussolini aveva in precedenza rifiutato sempre questa possibilità: peraltro le autorità svizzere, fin dall'estate 1944, avevano rifiutato la richiesta d'ingresso nel loro paese ai gerarchi fascisti e ai loro familiari. Il rifiuto era stato confermato in quegli stessi giorni dal rappresentante elvetico a Milano, Max Troendle. In Svizzera era possibile poi concretizzare trattative con diplomatici americani, attraverso l'intermediazione del console spagnolo a Berna, oppure come meta momentanea per poi raggiungere la Spagna. Le testimonianze degli accompagnatori italiani superstiti di quei giorni riferiscono concordemente del rifiuto di Mussolini a espatriare, ma è il tenente Birzer a parlare del tentativo di fuga di Mussolini e compagnia.
Durante il viaggio, il furgone di coda del convoglio, che trasportava valori e documenti di particolare importanza politica e militare, andò in panne nei pressi di Garbagnate. L'equipaggio, tra cui Maria Righini, cameriera personale di Mussolini, raggiunse Como con mezzi di fortuna. Vani risultarono i tentativi di recupero effettuati nella notte: il furgone, un "Balilla Van", verrà poi ritrovato la mattina seguente dai partigiani. Alle ventuno e trenta il capo del fascismo raggiunse la prefettura di Como. Il giorno precedente nella città comasca era arrivata anche la moglie Rachele con i figli Romano e Anna Maria, ma Mussolini si rifiutò di incontrarli, limitandosi a scriver loro una lettera d'addio e a fare una telefonata con cui raccomandava alla moglie di portare i figli in Svizzera. Durante la notte insonne, febbrili incontri con le autorità locali demolirono la possibilità di una sosta prolungata nella città, giudicata indifendibile. Rodolfo Graziani consigliò di ritornare a Milano, mentre la maggior parte, in particolar modo Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi, spinsero per entrare in Svizzera, anche in maniera illegale. Su indicazione del federale di Como Paolo Porta si scelse di proseguire verso Menaggio. Verso le quattro del mattino del 26, cercando invano di eludere la sorveglianza tedesca, il convoglio fascista abbandonò precipitosamente Como muovendosi verso nord, costeggiando il lato occidentale del lago di Como lungo la strada Regina e giungendo a Menaggio verso le cinque e trenta senza problemi. L'edizione del 26 aprile del Corriere della Sera uscì dedicando la sua prima pagina all'insurrezione generale di Milano contro le forze nazifasciste e riportando, sempre nella stessa pagina, la notizia dell'abbandono di Milano col titolo: "Mussolini scompare da Milano dopo drammatiche tergiversazioni".
A Menaggio proseguirono le discussioni e le riunioni sul da farsi, mentre nel centro lariano continuavano ad arrivare importanti personalità fasciste e la notizia presto si diffondeva. Rodolfo Graziani spinse per tornare indietro; inascoltato, si congedò e fece ritorno verso Como. Anche Alessandro Pavolini ritornò sui suoi passi per raccogliere e far convergere su Menaggio i militari arrivati a Como, ma lungo il tragitto fu attaccato da una formazione partigiana rimanendo lievemente ferito. Molti intendevano sconfinare in Svizzera, prendendo la via di Porlezza e di là a Lugano. Si scelse di allontanarsi da Menaggio e di temporeggiare. Alla partenza, improvvisa per cercare di liberarsi dell'oppressiva presenza della gendarmeria tedesca, il convoglio deviò a ovest in Val Menaggio per giungere a Cardano, frazione del piccolo comune di Grandola ed Uniti, presso la caserma della cinquantatreesima compagnia della Milizia Confinaria con sede all'ex albergo Miravalle. A Cardano, Mussolini fu raggiunto dall'amante Claretta Petacci, accompagnata dal fratello, e dalla scorta tedesca che aveva ricevuto l'ordine da Hitler di scortarlo verso la Germania. Qui apprese che a Chiavenna un aereo da trasporto era pronto al decollo per portarlo in salvo in Baviera. A Grandola fu raggiunto anche da Vezzalini, capo della provincia di Novara, e dal maggiore Otto Kinsnatt della Waffen-Ss, diretto superiore del tenente Fritz Birzer, proveniente dal lago di Garda. In serata giunse la notizia che i ministri Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi e il vicecommissario della prefettura di Como Domenico Saletta, che tentavano l'espatrio forzando la dogana, erano stati arrestati proprio a Porlezza dai partigiani. Nel frattempo la radio annunciava che anche Milano era stata completamente liberata e che i responsabili della disfatta nazionale trovati con le armi in mano sarebbero stati puniti con la pena di morte. Tutto volgeva al peggio e la disperazione aveva contagiato i presenti. Nell'impossibilità di proseguire in quella direzione e constatata l'indifendibilità della piccola guarnigione da un eventuale attacco partigiano, si fece ritorno a Menaggio. Nella notte arrivò Pavolini, senza i numerosi contingenti sperati ma con soli sette o otto militi della Gnr.
Nella notte, assieme a Pavolini, giunse a Menaggio un convoglio militare tedesco in ritirata composto da trentotto autocarri e da circa duecento soldati della FlaK, la contraerea tedesca, al comando del tenente Willy Flamminger diretto a Merano attraverso il passo dello Stelvio. Mussolini, con i gerarchi fascisti e le rispettive famiglie al seguito, decise di aggregarvisi. La colonna, lunga circa un chilometro, alle cinque del mattino partì da Menaggio, ma alle sette, appena fuori dall'abitato di Musso, fu fermata a un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a lunghe trattative, i tedeschi ottennero il permesso di proseguire a condizione che si effettuasse un'ispezione, e che fossero consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini, su consiglio del capo della sua scorta SS, il sottotenente Fritz Birzer, indossò un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finse ubriaco e salì sul camion numero trentaquattro della Flak, occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare. A nessun altro italiano fu concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio. Intanto, durante l'attesa in cui si svolgevano le trattative, Ruggero Romano con il figlio Costantino, Ferdinando Mezzasoma, Paolo Zerbino, Augusto Liverani, Nicola Bombacci, Luigi Gatti, Ernesto Daquanno, Goffredo Coppola e Mario Nudi si affidarono al parroco don Enea Mainetti, nella canonica di Musso, che li consegnò ai partigiani. Il sacerdote venne a conoscenza della presenza di Mussolini nella colonna e ne diede comunicazione a "Pedro".
Verso le sedici del 27, durante l'ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, Mussolini fu riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri sotto una panca del camion numero trentaquattro. Fu perciò prontamente disarmato del mitra e di una pistola Glisenti, arrestato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro "Bill" che lo accompagnò nella sede comunale, ove gli fu sequestrata la borsa di cui era in possesso. Tutti gli altri componenti italiani al seguito furono arrestati: si trattava di più di cinquanta persone, più le mogli e i figli al seguito. Tra di essi la maggior parte dei membri del governo repubblichino, più alcune personalità politiche, militari e sociali accompagnati dai loro familiari. Qualcuno si consegnò spontaneamente, altri tentarono di comprarsi una possibilità di fuga, offrendo ingenti somme e valori alla popolazione locale. Gli occupanti di un autoblindo cercarono di resistere ingaggiando una sparatoria, Pietro Corradori e Alessandro Pavolini fuggirono buttandosi nel lago, ma furono ripresi e Pavolini rimase ferito. Il giorno seguente sedici di essi, tra gli esponenti più in vista del regime, furono sommariamente fucilati sul lungolago di Dongo; tra i restanti, rimasti agli arresti a Dongo e poi trasferiti a Como, nelle due notti successive fu prelevata e uccisa un'ulteriore decina di prigionieri. Il fermo della colonna motorizzata tedesca e il successivo arresto di Mussolini e del suo seguito era stato effettuato dai partigiani del distaccamento "Puecher" della cinquantaduesima Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia "Pedro". Il suo commissario politico era Michele Moretti "Pietro Gatti", vice-commissario politico Urbano Lazzaro "Bill", il capo di stato maggiore Luigi Canali "Capitano Neri". Tra i gerarchi al seguito del dittatore, furono arrestati anche Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Pavolini, Ministro segretario del Pfr, Ferdinando Mezzasoma, Ministro della cultura popolare, Augusto Liverani, Ministro delle comunicazioni, Ruggero Romano, Ministro dei lavori pubblici, Paolo Zerbino, Ministro dell'interno. Fu arrestato anche Marcello Petacci, fratello di Claretta, che a bordo di un'Alfa Romeo 6C 1500 recante bandiera spagnola, seguiva il convoglio con la convivente Zita Ritossa, i figli Benvenuto e Ferdinando e la sorella. Esibendo un falso passaporto diplomatico spagnolo si dichiarava estraneo al convoglio, spacciandosi per diplomatico spagnolo. Anche Clara era in possesso di un passaporto spagnolo intestato a Donna Carmen Sans Balsells. Tra i fermati c'era anche la presunta figlia naturale del Duce, Elena Curti. Nello stesso tempo, i prigionieri rimasti a Dongo furono interrogati e schedati dal "capitano Neri" e separati in tre gruppi distinti: Bombacci, Barracu, Utimpergher, Pavolini e Casalinuovo furono anch'essi trasferiti a Germasino; i ministri rimasero rinchiusi nei locali del municipio; gli altri, autisti, impiegati, militari, tra cui l'agente dei servizi segreti Rosario Boccadifuoco, furono distribuiti nell'ex caserma dei Carabinieri e in case private. I Petacci, di cui non si era ancora scoperto la vera identità, furono alloggiati all'albergo Dongo. La partigiana "Gianna", in collaborazione con l'impiegata comunale Bianca Bosisio, eseguì l'inventario di tutti gli ingenti valori e i beni sequestrati.
Nel tardo pomeriggio del 27 aprile il brigadiere Antonio Scappin "Carlo" era riuscito a comunicare su ordine di "Pedro", telefonando attraverso una linea telefonica privata, la notizia dell'arresto a Milano. Una seconda comunicazione giunse alle venti e venti, tramite fonogramma, con la quale si comunicava che Benito Mussolini si trovava sotto controllo a Germasino custodito da partigiani e Guardia di Finanza. Già nella mattina del 25 aprile il Clnai, riunitosi a Milano, aveva approvato un Decreto per l'amministrazione della giustizia ove, all'articolo cinque si prevedeva che: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d'aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all'attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l'ergastolo”. Dello stesso tenore, il 19 aprile era stato emesso un Ultimatum "Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato". Con il diffondersi della notizia, giungevano al comando del Clnai dal quartiere generale Oss di Siena diversi telegrammi con la richiesta di affidamento al controllo delle forze delle Nazioni Unite di Mussolini. Infatti, la clausola numero ventinove dell'armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio il 29 settembre 1943, prevedeva espressamente che: «Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite». All'aeroporto di Bresso intanto si inviò un velivolo per prelevare il dittatore. Tuttavia, non appena a conoscenza dell'arresto dell'ex capo del governo, il Comitato insurrezionale di Milano formato da Pertini, Valiani, Sereni e Longo, riunitosi alle ventitré del 27, decise di agire senza indugio e di inviare una missione a Como onde procedere all'esecuzione di Mussolini; questo per aggirare il comportamento equivoco del generale Cadorna, diviso tra i doveri di comandante del Cln e la lealtà agli Alleati. Walter Audisio, nome di battaglia "Colonnello Valerio", ufficiale addetto al comando generale del Cvl ed Aldo Lampredi "Guido" ispettore del comando generale delle Brigate Garibaldi e uomo di fiducia di Luigi Longo, furono incaricati di eseguire la sentenza. Il riluttante generale Raffaele Cadorna, per evitare che Mussolini cadesse nelle mani degli Alleati, rilasciò il salvacondotto necessario; Audisio, inoltre, fu munito di un secondo lasciapassare in lingua inglese, firmato dall'agente dell'Oss americano Emilio Daddario. Contemporaneamente, peraltro, Cadorna provvedeva a contattare il tenente colonnello Sardagna rappresentante del Cvl a Como, al fine di predisporre misure per recuperare Mussolini e trasferirlo in luogo sicuro. Intanto alle tre del mattino successivo, il servizio radio partigiano trasmise agli alleati un fonogramma a scopo di depistaggio, nel quale si asseriva l'impossibilità della consegna di Mussolini, in quanto già processato dal Tribunale popolare e fucilato "nello stesso luogo ove precedentemente fucilati da nazifascisti quindici patrioti". Ci si riferiva alla Strage di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944.
In attesa di decisioni in merito, e temendo per la sua incolumità, il comandante Bellini delle Stelle, intorno alle diciotto e trenta del 27 aprile, trasferì l'ex duce, insieme con Porta, nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, un paesino sopra Dongo. Prima di ritornare a Dongo "Pedro" riceve la richiesta da Mussolini di portare i saluti alla signora che accompagna il console spagnolo, senza ricevere indicazioni sulla sua vera identità. Dopo l'interrogatorio della signora, Bellini delle Stelle scoprì che si tratta di Clara Petacci, che chiese di essere ricongiunta all'amante: il comandante acconsentì. Se al momento dell'arresto Mussolini sembrava oramai privo di energie, col passare delle ore iniziò a manifestare una certa serenità. Già a Dongo rispondeva volentieri alle domande che gli venivano rivolte, a Germasino si intrattenne con i suoi custodi discutendo su temi di politica, sulla guerra e sulla resistenza. Prima di coricarsi alle ventitré e trenta, su richiesta dei partigiani di guardia, Mussolini sottoscrisse questa dichiarazione: «La cinquantaduesima Brigata garibaldina mi ha catturato oggi, venerdì 27 aprile, sulla piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto. Mussolini». All'una fu svegliato per essere trasferito di nuovo in un posto ritenuto più sicuro e, affinché non fosse riconosciuto, gli fu fasciato il capo. Di nuovo a Dongo, Mussolini fu riunito alla Petacci su richiesta di quest'ultima; poi, i due prigionieri furono fatti salire su due vetture, con a bordo, oltre ai due autisti, anche "Pedro", il "Capitano Neri", "Gatti", la staffetta Giuseppina Tuissi "Gianna" ed i giovani partigiani Guglielmo Cantoni "Sandrino Menefrego" e Giuseppe Frangi "Lino" e condotti verso il basso lago.
La notizia del trasferimento a Germasino si era oramai diffusa rapidamente: i partigiani temevano un colpo di mano fascista per tentare di liberare Mussolini, o qualche tentativo da parte degli Alleati per impossessarsene. Si decise allora un ulteriore trasferimento in un luogo più distante. "Neri", d'accordo con "Pietro", era del parere di trasferire Mussolini in una baita a San Maurizio di Brunate, sopra Como. L'intenzione di "Pedro" era invece di porre in salvo Mussolini, essendo stato contattato dal tenente colonnello Sardagna, rappresentante del Cvl a Como, su ordine del comandante generale Raffaele Cadorna, che aveva predisposto il traghettamento del prigioniero dal molo di Moltrasio sino alla villa dell'industriale Remo Cademartori a Blevio, sull'altra sponda del ramo comasco del Lario. Secondo questo piano, Mussolini e la Petacci avrebbero dovuto essere nascosti all'interno di una grotta naturale sita nel parco di Villa Cademartori. Lungo la strada, tuttavia, dopo aver superato con difficoltà diciotto posti di blocco partigiani, ci si rese conto che era troppo rischioso procedere oltre e non era possibile raggiungere la meta prefissata. "Pedro" convinse quindi il gruppo a fermarsi a Moltrasio ma, giunti sul molo, non fu rinvenuta nessun'imbarcazione pronta ad accoglierli.. Intanto in lontananza furono uditi echi di una nutrita sparatoria, provenienti da una prima avanguardia della trentaquattresima Divisione statunitense che entrava in città. Si decise quindi, su proposta di Canali, di ritornare sui propri passi e di trovare un sicuro rifugio alternativo. Intanto una decina di Jeep di un reparto agli ordini del Generale Bolty perlustravano la zona per cercare di assicurarsi la consegna di Mussolini. Intorno alle ore tre del mattino del 28 aprile, Mussolini e la Petacci furono quindi fatti scendere dalle vetture ed alloggiati a Bonzanigo, una frazione del comune di Tremezzina, presso la famiglia De Maria, conoscenti di lunga data del "capitano Neri" e di cui il capo partigiano si fidava ciecamente. Il piantonamento notturno fu effettuato dai partigiani Cantoni e Frangi; "Pedro" con l'autista Dante Mastalli ritornò a Dongo, mentre "Neri", "Gianna" e "Pietro" con l'autista ”Andrea" (Giovanni Battista Geninazza) si diressero verso Como.
Della morte di Benito Mussolini esistono numerosi racconti e versioni, più o meno fantasiosi, che sono stati elaborati negli anni dopo gli avvenimenti. Spesso sono il frutto di campagne propagandistiche e di speculazione politica che non trovano sul terreno storiografico alcun serio riscontro. La Versione storica o ufficiale è la risultante delle testimonianze date sugli avvenimenti che riguardano l'uccisione di Mussolini e della Petacci rilasciate dai tre esecutori. Le versioni che hanno dato sono differenti tra loro, ma sostanzialmente concordano sulla modalità con cui fu eseguita, mentre divergono sugli atteggiamenti e le parole pronunciate.
Alle sette del 28 aprile, "Valerio" e "Guido" partirono dalla scuola di Viale Romagna di Milano, con il supporto di un plotone di quattordici partigiani, agli ordini del comandante Alfredo Mordini "Riccardo", ispettore politico della 3ª Divisione Garibaldi-Lombardia "Aliotta", e di Orfeo Landini "Piero". Giunto a Como, Audisio esibisce il lasciapassare di Cadorna al nuovo prefetto Virginio Bertinelli ed al colonnello Sardagna, assicurando loro che avrebbe trasferito i prigionieri a Como e, in un secondo momento, a Milano. Trattenuto a Como fino alle dodici e quindici in cerca di un camion per il trasporto, Audisio si sposta a Dongo, dove giungerà alle quattordici e dieci. Lampredi e Mordini intanto, viste le difficoltà a reperire un mezzo di trasporto, abbandonano Audisio in prefettura e vanno a cercare aiuto nella sede comunista. Accompagnati da Mario Ferro e Giovanni Aglietto della federazione comasca del Partito Comunista Italiano lasciano Como verso le dieci e arrivano a Dongo poco dopo Audisio. Intanto giunsero da Como anche Oscar Sforni, segretario del Cln comasco e il maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare del Clnai per la zona di Como, inviati dal Cln comasco col compito di far rispettare le decisioni prese in mattinata e di trasportare Mussolini a Como. I due però, intralciando i propositi di "Valerio", saranno da questi fatti imprigionare e verranno rilasciati solo a operazione conclusa. A Dongo "Valerio" trova un ambiente difficile e ostile, infatti i partigiani lariani temevano un colpo di mano dei fascisti per liberare i catturati. Si incontra con il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle comunicandogli di aver avuto l'ordine di fucilare Mussolini e gli altri prigionieri. "Pedro" però non intende collaborare acriticamente, protesta vivamente, ma dopo aver preso visione delle credenziali, e ritenendole sufficienti, è costretto a ubbidire a un ufficiale di grado superiore.
Alle quindici e quindici Walter Audisio "Valerio" invia "Pedro" a Germasino a prendere gli altri prigionieri, e parte da Dongo con una Fiat 1100 nera in direzione di Bonzanigo, dove l'ex dittatore è tenuto prigioniero con la Petacci. Sono con lui Aldo Lampredi "Guido", Michele Moretti “Pietro”, che conosceva i carcerieri e il luogo essendoci già stato la notte prima, e l'autista Giovanni Battista Geninazza. Moretti è armato di mitra francese Mas 38, calibro sette e sessantacinque lungo; Lampredi è armato di pistola Beretta modello 1934, calibro nove per diciassette millimetri. L'arma di Walter Audisio, un mitra Thompson, sarà successivamente riconsegnata al commissario politico della divisione partigiana dell'Oltrepò, Alberto Maria Cavallotti, senza essere stata utilizzata. Le varie versioni dei fatti, fornite o riferite da Walter Audisio, pur differendo su particolari minori, descrivono la stessa meccanica dell'evento. L'ultima descrizione degli stessi, pubblicata postuma, a cura della moglie di Audisio, è sostanzialmente confermata dal memoriale di Aldo Lampredi, consegnato nel 1972 e pubblicato su l'Unità nel 1996.
Giunti a casa De Maria, sempre sorvegliata da "Sandrino" e "Lino", sollecitano Mussolini, trovato stanco e dimesso, e la Petacci a lasciare rapidamente l'abitazione. In strada i prigionieri sono fatti sedere nei sedili posteriori della vettura e vengono accompagnati nel luogo precedentemente scelto per l'esecuzione poco distante: si tratta di un angusto vialetto, via XXIV Maggio a Giulino, in posizione assai riparata davanti a Villa Belmonte, una graziosa residenza di villeggiatura. Qui i due sono obbligati a scendere. Moretti e Lampredi sono inviati a bloccare la strada nelle due direzioni, mentre a Mussolini viene fatto cenno di dirigersi verso il cancello. Sembra smarrito, Claretta piange. "Valerio" sospinge Mussolini verso l'inferriata e pronuncia la sentenza: "Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano" e, rivolgendosi a Claretta che si aggrappava all'amante: "Togliti di lì se non vuoi morire anche tu". Tenta di procedere nell'esecuzione ma il suo mitra si inceppa; Lampredi si avvicina, estrae la sua pistola, ma anche da questa il colpo non parte, chiama allora Moretti che, di corsa, gli porta il suo mitra. Con tale arma il "colonnello Valerio" scarica una raffica mortale di cinque colpi sull'ex capo del fascismo. La Petacci, postasi sulla traiettoria del mitra, è colpita e uccisa anch'essa. Viene poi inferto un colpo di grazia al cuore di Mussolini con la pistola. Sul luogo dell'esecuzione furono poi rinvenuti proiettili calibro sette e sessantacinque, compatibili con quelli del mitra francese del Moretti. Sono le ore sedici e dieci di quel giorno. L'edizione locale del l'Unità, il giorno seguente, riporta il fatto con questo titolo a tutta pagina: "Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti nel nome del popolo"; mentre l'edizione nazionale del 1º maggio riporta in prima pagina un'intervista col partigiano - di cui non viene fatto il nome - che "ha giustiziato il Duce", intitolata: "Da una distanza di tre passi sparai cinque colpi a Mussolini".
Walter Audisio era al tempo ufficiale addetto al Comando generale delle Brigate d'assalto Garibaldi e a quello del Cvl. Essendo noto solo negli ambienti di militanza e non avendo mai dato modo di parlare di sé, non fu inizialmente identificato come l'uccisore di Mussolini: le cronache infatti, riferivano che l'ex duce era stato fucilato dal "colonnello Valerio", senza conoscerne l'esatta identità. La sua figura emerse direttamente, con riferimento a questi fatti, solo nel marzo 1947, quando il quotidiano l'Unità, organo del Pci, di cui Audisio fu poi deputato, diede notizia del suo coinvolgimento. Nel volume "In nome del popolo italiano", uscito postumo, Audisio sostenne che le decisioni prese nel primo pomeriggio del 28 aprile a Dongo, nell'incontro con il comandante della cinquantaduesima Brigata, Bellini delle Stelle, fossero equivalenti a una sentenza emessa da un organismo regolarmente costituito ai sensi dell'articolo quindici del documento del Clnai sulla costituzione dei tribunali di guerra. Non tutti sono d'accordo con questa interpretazione in quanto, nell'occasione, mancava la presenza di un magistrato e di un commissario di guerra. Dell'intera questione si occupò anche la magistratura penale ordinaria, investita dal giudice civile, cui si erano rivolti i familiari dei Petacci e di Pietro Calistri per risarcimento danni. Nei confronti di Audisio, all'epoca parlamentare, l'apposita Giunta concesse l'autorizzazione a procedere. Il processo si chiuse definitivamente il 7 luglio 1967, quando il giudice istruttore assolse il "colonnello Valerio" dall'accusa di omicidio volontario pluriaggravato, appropriazione indebita e vilipendio di cadavere, perché i fatti erano avvenuti nel corso di un'azione di guerra partigiana per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo della occupazione nemica e come tali non furono ritenuti punibili.
Contatti segreti tra il duce ed emissari britannici erano avvenuti a Porto Ceresio (Varese), presso il confine svizzero, il 21 settembre 1944 ed il 21 gennaio 1945; inoltre, il testo delle intercettazioni telefoniche effettuate dai servizi segreti tedeschi a Salò, sulle conversazioni di Mussolini, suggeriscono l'esistenza di possibili accordi segreti e di uno scambio di lettere tra il dittatore italiano e il Primo ministro inglese Winston Churchill, anche se è ancora aleatorio definire il contenuto di tale carteggio. Il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, secondo le testimonianze di coloro che hanno dichiarato di averle ispezionate in quei giorni (partigiani, funzionari eccetera) Mussolini aveva con sé una borsa piena di documenti contenente, tra l'altro, parte della sua corrispondenza con Churchill, ma di cui non è stata accertata la datazione. Nell'immediato dopoguerra, Churchill ed i servizi segreti britannici, peraltro, si sarebbero mossi per recuperare tutte le copie di tale carteggio. Alla scomparsa successiva all'arresto di Mussolini di tali documenti particolarmente segreti, divenuti noti come il "carteggio Churchill-Mussolini", si ricollegherebbe una versione sull'uccisione del capo del fascismo di cui al memoriale dell'ex comandante della divisione partigiana formata dalla cento undicesima, cento dodicesima e cento tredicesima Brigata Garibaldi, Bruno Giovanni Lonati "Giacomo". In tale pubblicazione, uscita nell'autunno 1994 quasi cinquant'anni dopo i fatti, l'autore scrive di essere stato l'autore dell'uccisione di Mussolini, il 28 aprile 1945, poco dopo le undici, in una stradina laterale di fronte casa De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra, nell'ambito di una missione segreta diretta da un agente inglese. Lo scopo della missione sarebbe stato quello di impedire la diffusione del contenuto del carteggio, recuperandolo e sopprimendo Mussolini e Claretta Petacci, essendo quest'ultima perfettamente informata sull'esistenza di tali rapporti. In base a tale versione dei fatti, Lonati sarebbe stato contattato da un agente inglese il giorno precedente a Milano alle sedici e, per lo svolgimento della missione, avrebbe costituito una squadra composta da altri tre partigiani. Il “commando” sarebbe stato messo a conoscenza del luogo esatto ove si trovavano i prigionieri, intorno alle ore otto del mattino del giorno 28, grazie a un altro agente, detto "L'alpino", posizionato a Tremezzo. Dopo una sparatoria per superare un posto di blocco nei pressi di Argegno, ove uno dei tre partigiani del “commando” avrebbe perso la vita, la squadra sarebbe giunta a Bonzanigo e avrebbe avuto facilmente ragione dei guardiani della coppia. L'esecuzione sarebbe stata effettuata con mitra Sten. Il carteggio Churchill-Mussolini non poté essere recuperato, ma, dopo aver effettuato alcune foto ai cadaveri, l'agente inglese avrebbe concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant'anni. Per tale motivo Lonati avrebbe scritto il suo memoriale solo nel 1994. Nel frattempo, nel 1982, Lonati si sarebbe recato dal console inglese a Milano, il quale gli avrebbe anche mostrato le foto scattate a suo tempo dall'agente segreto “John” e avrebbe approvato il testo di una dichiarazione da spedire a Lonati allo scadere dei cinquant'anni, a conferma di tale versione dei fatti. Tale versione è stata accreditata da Peter Tompkins, scrittore ed ex agente segreto statunitense e dallo storico Luciano Garibaldi. Questa ricostruzione è avvalorata dalle seguenti circostanze: È documentato da registrazioni telefoniche e dalla corrispondenza intercorsa tra Mussolini e la Petacci, che quest'ultima era effettivamente al corrente dei contatti tra Churchill e il capo del fascismo e del carteggio segreto. È stata individuata la presenza in loco, ai primi di maggio del 1945, di un misterioso agente in uniforme da alpino, sicuramente in contatto con spie inglesi e probabilmente anche con la partigiana Giuseppina Tuissi "Gianna", una delle poche persone a conoscenza della prigione di Mussolini e della Petacci, prima dell'esecuzione. È stato effettivamente testimoniato il verificarsi di una sparatoria con morti tra un posto di blocco di partigiani e una macchina, ad Argegno, la mattina del 28 aprile. L'orario antimeridiano dell'uccisione, secondo la versione Lonati, è coerente con la circostanza, rilevata in sede di autopsia, che lo stomaco di Mussolini fosse privo di resti di cibo. La testimonianza di Dorina Mazzola, che ha dichiarato che Mussolini e la Petacci furono uccisi a Bonzanigo e non a Giulino di Mezzegra in orario antimeridiano del 28 aprile 1945 è abbastanza coerente, anche se non coincide perfettamente, con quanto affermato da Lonati. La Mazzola ricordava anche un uomo che aveva a tracolla “una lussuosa macchina fotografica”. Luigi Longo, comandante in capo di tutte le brigate Garibaldi, secondo Tompkins, sarebbe giunto sul posto subito dopo la duplice uccisione, avrebbe architettato una “finta fucilazione” e la versione dell'uccisione “per errore” della Petacci, per poi legare al segreto per cinquant'anni tutti i partigiani presenti. A tal proposito non si può non tener conto della ricostruzione fornita nel 1993 da Urbano Lazzaro, il partigiano “Bill”, vice commissario politico della colonna partigiana autrice della cattura, nella quale si dichiara che il personaggio presentatosi a Dongo il 28 aprile 1945, con il nome di battaglia di "Colonnello Valerio" fosse proprio Luigi Longo e non Walter Audisio, come comunemente si sostiene. La versione di Bruno Lonati è tuttavia contraddetta, oltre che dalla versione storica di cui è fatto cenno in premessa, anche da altri elementi: Dall'autopsia effettuata a Milano il 30 aprile 1945, dal Professore Caio Mario Cattabeni, che ha rilevato almeno sette fori di entrata di proiettili sul corpo di Benito Mussolini, mentre Lonati ha affermato di aver sparato non più di quattro o cinque colpi. Dagli ulteriori esami effettuati dal prof. Pierluigi Baima Bollone sulle fotografie dei cadaveri sospesi al traliccio di Piazzale Loreto, che attesterebbero non solo l'esistenza di una raffica di mitra sui due corpi, ma anche l'effettuazione del colpo di grazia a mezzo pistola. Dal rilevamento di due proiettili da pistola, nove corto, nel corpo di Claretta Petacci, nel corso della riesumazione effettuata il 12 aprile 1947, incompatibile con i proiettili del mitra Sten calibro nove Parabellum, che il Lonati asserisce fosse imbracciato dall'esecutore dell'omicidio. Dalla circostanza che, in realtà, i partigiani incaricati a sorvegliare Mussolini e la Petacci, in casa De Maria furono soltanto due ("Lino" e "Sandrino"), mentre invece Lonati racconta che il suo "commando" ne avrebbe immobilizzati tre, prima di effettuare la duplice uccisione; Dal parere dell'anatomopatologo Luigi Baima Bollone che non ritiene decisiva la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini, in rapporto alla determinazione dell'orario dell'esecuzione. Dal silenzio dell'ambasciata britannica più volte interessata dallo stesso Lonati per la conferma della sua versione, una volta scaduti i cinquant'anni dai fatti. Dal rifiuto di rilasciare dichiarazioni a suo favore, da parte dell'unico partigiano del "commando", ancora vivente all'epoca della trasmissione trasmessa da Raitre nel programma Enigma, del 31 gennaio 2003. Dalla mancata conferma della “macchina della verità”, cui si è sottoposto il Lonati stesso nel corso della trasmissione suddetta.
Oltre alla versione storica e all'"ipotesi inglese", sono sorte, negli anni, differenti versioni della duplice uccisione.
Il 22 ottobre 1945, ancor prima che si fosse formata la "versione storica" dei fatti, il partigiano Guglielmo Cantoni "Sandrino", uno dei due militanti che il 28 aprile 1945 avevano piantonato Mussolini e la Petacci in casa De Maria, rilasciava un'intervista al Corriere d'Informazione. "Sandrino" dichiarava alla stampa di aver seguito a piedi la squadra degli esecutori e delle vittime della fucilazione e di esser giunto nei pressi di Villa Belmonte in tempo per vedere "Valerio" sparare un paio di colpi di pistola contro l'ex duce, il quale era rimasto inaspettatamente in piedi; la raffica di mitra che, secondo l'intervistato, avrebbe investito sia Mussolini sia la Petacci, sarebbe stata sparata da Michele Moretti, intervenuto subito per risolvere l'impasse. Successivamente lo stesso "Valerio" avrebbe sparato altri due colpi di pistola sul corpo dell'uomo, che si muoveva ancora.
Altre versioni alternative sono frutto dell'attestazione del professor Cattabeni, in sede di necroscopia del 30 aprile 1945, relativa all'assenza di residui di cibo nello stomaco di Mussolini; da ciò la deduzione che l'esecuzione si sarebbe verificata in orario antimeridiano e l'ipotesi che poco dopo le ore 16:00 del 28 aprile si sarebbe svolta una “finta fucilazione” di due cadaveri. Il primo studioso a delineare una simile tesi è stato Franco Bandini, nel 1978.
Nel 1993 lo storico Alessandro Zanella sostenne che la duplice uccisione fosse avvenuta intorno alle cinquanta e trenta del mattino del 28 aprile, all'interno o nei paraggi di casa De Maria, per opera di Luigi Canali "Neri", Michele Moretti "Gatti" e Giuseppe Frangi "Lino". Quest'ultima versione si avvale di uno studio prodotto dal dr. Aldo Alessiani, medico giudiziario della magistratura di Roma, nel quale si attesta, in base all'esame delle foto scattate dalle undici alle quattordici circa del 29 aprile sui cadaveri appesi al traliccio di Piazzale Loreto, che Mussolini e la Petacci fossero morti da circa trentasei ore, e cioè ben prima delle sedici del 28. Anche la cosiddetta “pista inglese”, di cui tratta la precedente sezione, presuppone un'esecuzione in orario antimeridiano, anche se intorno alle undici.
Nel 2005 Pierluigi Baima Bollone, ordinario di Medicina legale nell'Università di Torino, effettuò un riesame della necroscopia del 1945 sul cadavere dell'ex duce e uno studio computerizzato sulle fotografie e sulle riprese cinematografiche dei corpi sospesi al traliccio di Piazzale Loreto e sul tavolo dell'obitorio di Milano, sulle armi impiegate e i bossoli rinvenuti, nonché sulle cartelle cliniche di Mussolini in vita. Tale indagine ha condotto l'anatomopatologo torinese ad affermare che la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini non sia determinante in rapporto alla individuazione dell'orario dell'uccisione, in quanto risulta senza ombra di dubbio che il capo del fascismo fosse sofferente di ulcera e osservasse da anni una dieta tale da permettere al suo stomaco di svuotarsi del cibo in un paio d'ore circa. Inoltre il docente universitario smentisce lo studio del dottor Alessiani, sostenendo che, al momento dello scatto delle foto e delle riprese in Piazzale Loreto, la rigidità del corpo dell'ex duce fosse ancora nella fase iniziale, a dimostrazione di un orario del decesso non anteriore alle sedici sedici e trenta del giorno precedente, coincidente con quello del racconto di Walter Audisio. Inoltre, sulla base del posizionamento dei fori di entrata e di uscita nei due cadaveri, rilevata in base alle foto delle salme e alla necroscopia Cattabeni, il professor Baima Bollone riterrebbe logico presumere che “l'azione determinante i due decessi sia stata effettuata da due tiratori, dei quali il primo posto frontalmente al bersaglio costituito dalla Petacci e da Mussolini, affiancati e leggermente sopravanzatisi l'una all'altro, e il secondo lateralmente”. Quest'ultima asserzione, pur non entrando nel merito dell'identificazione dei due tiratori, sembra avvalorare la meccanica della vicenda riportata nelle dichiarazioni del partigiano "Sandrino" al Corriere d'Informazione nel 1945.
Nel 2009 i ricercatori Cavalleri, Giannantoni e Cereghino effettuarono un attento esame dei documenti dei servizi segreti americani degli anni 1945 e 1946, desecretati dall'amministrazione Clinton. Dall'esame dei tre ricercatori sono emersi due rapporti segreti dell'agente dell'Oss Valerian Lada Mokarski, il primo datato ai primi di maggio del 1945 e il secondo il 30 maggio 1945. L'agente americano, dopo aver ascoltato il resoconto di alcuni "testimoni oculari", indica esattamente orario e luogo della fucilazione (poco dopo le ore 16:00 del 28 aprile 1945, davanti a Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra), esattamente coincidenti con quelli derivati dalla versione storica. I due rapporti, peraltro, non sono perfettamente chiari per quanto riguarda l'identificazione degli autori. Secondo il rapporto del 30 maggio - più esauriente del precedente - la fucilazione sarebbe stata condotta da tre uomini: un "capo partigiano" (che gli autori della ricerca hanno identificato in Aldo Lampredi), un uomo in vestito civile (identificato dall'agente OSS nel "colonnello Valerio") e un uomo in divisa da partigiano (Michele Moretti). I colpi sparati dal "civile", armato di revolver, avrebbero raggiunto obliquamente Mussolini sulla schiena e, subito dopo, l'uomo in divisa da partigiano gli avrebbe sparato direttamente al petto con un mitra. Poi sarebbe stata la volta della Petacci, raggiunta da diversi colpi al petto. Il precedente rapporto dei primi di maggio, tuttavia, non descrive il "colonnello Valerio" come indossante un vestito civile, ma una divisa da partigiano color mattone con i gradi di colonnello sulla bustina. Ciò è conforme con tutte le descrizioni di Audisio "Valerio" comunemente fornite dai testimoni. Il rapporto del 30 maggio, inoltre, conclude che, in un secondo momento, sarebbe intervenuto nell'esecuzione un partigiano locale (identificato in Luigi Canali, accreditato dall'agente statunitense come uno dei suoi confidenti), il quale, dopo esser stato fatto avvicinare dal "capo partigiano", avrebbe scaricato due ultimi colpi con la sua pistola sul corpo del duce, perché ancora vivo. L'introduzione di un terzo "tiratore" nella vicenda contrasta con la meccanica dell'azione emersa dai rilievi del professor Baima Bollone.
Nel 2012, il quotidiano Libero riportò alcune rivelazioni che tale Giuseppe Turconi, dello stesso paese di Giuseppe Frangi, “Lino”, uno dei due guardiani di Mussolini in casa De Maria, avrebbe avuto nel 1945 da Lia De Maria e le analoghe confidenze di Ettore Manzi, comandante della stazione dei carabinieri di Dongo, a Elena Curti, figlia naturale di Mussolini, intorno alla fine degli anni cinquanta. Manzi e la De Maria avrebbero sostenuto che il duce, mentre era in stato di prigionia a Bonzanigo, aveva ingerito del cianuro tramite una capsula incastrata sotto un dente. Secondo "Libero", il partigiano Frangi potrebbe aver finito il rantolante Mussolini. La Petacci sarebbe stata uccisa in un secondo momento in un prato sottostante la chiesa di Mezzegra. "Libero", tuttavia, sottolinea la contraddizione tra il timore di Mussolini di essere avvelenato con il cibo e il suo supposto suicidio tramite il veleno.
Nel 2019 il settimanale Oggi rilanciò l'ipotesi che Mussolini si fosse in realtà suicidato con il cianuro attraverso una pasticca nascosta in una capsula della sua dentiera.
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