lunedì 2 aprile 2012

IL PCI CON GLI OPERAI BERLINGUER 30 ANNI FA AI CANCELLI DI MIRAFIORI (21/09/2010)

Di Marco Vitali.


«Io lo sapevo che Berlinguer non poteva rispondere in modo diverso, ma la mia non era una provocazione come qualcuno ha detto. L’idea di occupare la Fiat c’era e il consenso del Pci era importante. Quella domanda l’ho fatta a ragion veduta». Nell’autunno caldo del 1980, Liberato Norcia, delegato della Fim-Cisl, è uno dei leader del consiglio di fabbrica di Mirafiori. E’ lui che il 26 settembre, quando Enrico Berlinguer sta per prendere la parola davanti alla porta cinque, afferra il microfono e chiede: «Ma se i lavoratori decidessero di occupare la Fiat, il Pci che farebbe?». Berlinguer risponde in modo articolato: dice che un’eventuale decisione in tal senso deve essere presa dai lavoratori con i sindacati, ma se si dovesse giungere «a forme di lotta più acute, comprese forme di occupazione», sarebbe sicuro «l’impegno politico, organizzativo e anche di idee e di esperienza del Partito Comunista». Una risposta interpretata dai presenti come un avallo all’occupazione della Fiat.
 Quando Berlinguer arriva ai cancelli di Mirafiori lo scontro in atto è durissimo. La scintilla è l’annuncio dei 14.000 licenziamenti che Cesare Romiti, amministratore delegato della Fiat, dà l’11 settembre. Dal 13 inizia lo sciopero a oltranza con il presidio dei cancelli e il blocco di qualsiasi movimento di uomini e merci da Mirafiori e dagli altri stabilimenti. Una lotta lunga 35 giorni che va avanti anche dopo il ritiro dei licenziamenti e si conclude il 14 ottobre quando 40.000 capi e quadri intermedi della Fiat sfilano per le vie di Torino in nome del «diritto al lavoro». Il giorno dopo viene firmato l’accordo che prevede la cassa integrazione per 23.000 lavoratori.
 La lettura di quello scontro da parte dei protagonisti dell’epoca, che hanno ancora un ruolo nella vita politica, s’intreccia, a trent’anni di distanza, con i fatti di oggi. Piero Fassino, in quei giorni responsabile Fabbriche del Pci, richiama le analogie tra «la ristrutturazione ineludibile» d’allora e la vicenda di Pomigliano: «La lezione dell’Ottanta è che un sindacato tutela al meglio i diritti dei lavoratori non se si arrocca in difesa dell’esistente, ma se si misura con i problemi senza paura del cambiamento. Se sa fare proposte è più difficile che l’azienda si chiuda nella unilateralità». Concorda Cesare Damiano, nel 1980 segretario della Fiom Piemonte: «C’era la tendenza nel sindacato metalmeccanico a non riconoscere che la Fiat aveva davvero un esubero di manodopera. Anche oggi l’azienda pone problemi di competitività e la sfida di Marchionne va accettata senza far prevalere la logica del muro contro muro, ma con una proposta sindacale alternativa. Su quel terreno bisogna avere il coraggio di avventurarsi». Per Giorgio Benvenuto, che alla guida della Uil è uno dei protagonisti della vertenza (nota la sua frase, in un comizio a Mirafiori, «O molla la Fiat o la Fiat molla»), «in quello scontro si verifica la debolezza delle forze sindacali e finisce l’epoca del sindacato antagonista. Il fatto più grave, però, è che la Fiat ha vissuto gli allori della marcia dei quarantamila senza accorgersi che è stata una vittoria di Pirro. Allora ha sconfitto il sindacato, ma nei decenni successivi è stata in grande difficoltà. Avere puntato sullo scontro e non avere favorito un accordo per la globalizzazione ha ridotto il suo peso politico». Pierre Carniti, allora leader della Cisl, paragona «Marchionne che se la prende con la Fiom a Romiti che se la prendeva con gli operai», mentre Diego Novelli, sindaco di Torino e in prima linea nei tentativi di mediazione dei giorni più difficili, sostiene che «la storia non si ripete, ma anche oggi c’è una pesante offensiva antioperaia».
 Per molti esponenti del sindacato e della sinistra la sconfitta di trent’anni fa sono ancora una ferita aperta. Osserva Fausto Bertinotti, allora segretario della Cgil piemontese e sostenitore della lotta a oltranza: «E’ stato l’inizio del declino del sindacato dei consigli e della trasfigurazione della sinistra italiana. La sconfitta non era inevitabile, la sinistra e il sindacato potevano agire diversamente. La percezione del popolo dei cancelli era giusta e acuta: in quei giorni si è deciso il futuro dei rapporti di classe nel Paese». Giorgio Airaudo, oggi responsabile auto della Fiom nazionale, nel 1980 ha diciannove anni ed è iscritto alla Federazione giovanile comunista. Ricorda l’accordo firmato alla fine della vertenza senza il consenso dei lavoratori: «Allora si consumò uno strappo democratico fra sindacato e lavoratori che dopo trent’anni non è stato ancora risolto. E se faccio il sindacalista è perché ho trovato del tutto ingiusta la conclusione di quella vicenda».



(Da "La nuova Sardegna")

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