C’è un aspetto di tutta la faccenda della legge sulle unioni civili che è stato ingiustamente trascurato e che è invece fortemente rivelatore della percezione che i politici italiani ma anche l’opinione pubblica hanno della questione. L’aspetto linguistico. Fin da quando la proposta di legge fece la sua prima apparizione su giornali e telegiornali tutti si sono accaniti a definirla usando un astruso termine inglese, “step child adoption”, per un concetto che l’italiano “adozione del figliastro” esprime in tutta chiarezza. Non c’era fin dall’inizio nessuna necessità di ricorrere a un anglicismo, non è questo il caso di un concetto nuovo che non trova un corrispettivo nella nostra lingua e che richiede dunque un prestito straniero per essere espresso. Ma l’idea stessa dell’adozione di un figlio da parte di una coppia omosessuale doveva apparire così scabrosa a cronisti, politici e commentatori italiani che quasi nessuno ha voluto usare l’italiano per esprimerlo e così ammetterne l’esistenza nella nostra lingua. Insomma l’adozione del figliastro in italiano non può esistere, questo è il messaggio subliminale che lancia chiunque parli di “step child adoption”. Come il maronesco “Ministero del Welfare”, che nascondeva dietro l’anglicismo la sua inconsistenza. Perché “welfare” in inglese significa assistenza sociale e allora non c’è bisogno dell’inglese per dirlo. Oppure il “welfare” maronesco aveva un altro significato e allora bisognava spiegarlo agli italiani. Tutta la faccenda della squallida “stecciàildadòscion”, come ormai è pronunciata, finirebbe qui, o sul lettino dello psicanalista di cui avrebbero bisogno tutti quelli che non hanno il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Se non fosse che questo continuo ricorso a parole straniere ogni volta che la modernità ci costringe a prendere in considerazione trasformazioni della nostra società è proprio un segno evidente della nostra incapacità al cambiamento. Mentre l’italiano un tempo produceva assieme all’innovazione i neologismi che servivano per esprimerla e li diffondeva fuori dai propri confini, oggi è incapace di pensare il nuovo e di dargli un nome. Basti pensare a tutta la terminologia informatica o alle più recenti tematiche finanziarie, dal “bail in” al “bail out”, dallo “spread” al “rating” fino al patetico “jobs act”, termine incomprensibile in inglese, perché si riferisce a una parte specifica di un pacchetto legislativo americano molto più vasto della questione del lavoro. Infatti, quando The Economist si è occupato del “jobs act” lo ha chiamato con il termine inglese appropriato: “employment bill” (legge sul lavoro), come doveva essere. E pensare che una volta esportavamo parole che esprimevano uno stile di vita, da “aperitivo” a “espresso”, da “belvedere” a “casanova”. Oggi ce le facciamo invece rubare e deturpare. Gli americani di Starbucks hanno felicemente inventato e brevettato il loro “frappuccino”. Mentre noi siamo incapaci di usare la nostra lingua e la infarciamo di. parole straniere fino a non capirci più, i nostri rivali con la nostra lingua ci giocano e inventano perfino parole nuove. Possiamo nascondere la nostra inadeguatezza sotto la sabbia di mille altre parole straniere, ma l’adozione del figliastro è un problema che esiste e che dobbiamo essere capaci di nominare e affrontare.
(Da "La Nuova Sardegna")
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