martedì 23 gennaio 2024

CONDOTTIERO DI UN INTERO POPOLO (23/01/2024)

Di Redazione.


Scrive Giacomo Bedeschi "Dio, in cui credeva anche senza andare a messa ma ricordandosi di pregare un requiem per il padre, la madre e la sorella, se l’è preso in un giorno qualsiasi di gennaio. Solo poche settimane dopo aver aperto le porte del cielo a Franz Beckenbauer, un’altra leggenda consegnata all’eternità. Quella tra di loro fu la partita del secolo. E Gigi Riva fu la nostra bandiera. Italia-Germania 4-3, l’unica partita che si recita con il risultato finale. Quando il Kaiser se n’è andato, Gigi Riva disse solo poche parole. «In campo, in quella mitica semifinale, io non guardavo la partita: guardavo lui. Era bellissimo vederlo giocare». Eri bellissimo anche tu, Gigi. Con quelle spalle larghe e quella faccia da Tex Willer, con quel coraggio da condottiero che ti faceva buttare la testa dove nessuno avrebbe voluto metterci neppure un piede, solo per colpire la palla e fare gol. Eri bellissimo quel giorno di giugno del 1970 quando infilasti a modo tuo la porta dei tedeschi e quando, pochi minuti dopo, abbracciasti Rivera dopo il gol della vittoria impedendogli di cadere a terra e consegnandoci la foto immortale del trionfo. Fu il tuo secondo capolavoro di quell’anno, dopo lo scudetto del Cagliari. Gianni Brera, lo stesso che ti aveva chiamato per la prima volta Rombo di tuono, scrisse che quello scudetto aveva rappresentato il vero ingresso della Sardegna in Italia. Non è così e lo sappiamo. Ma, sicuramente, grazie a te l’isola era diventata meno isola. E tu, arrivato ragazzino e orfano dalle pianure del nord, qui avevi trovato una famiglia. Andò davvero così. Riva lo raccontò, una ventina d’anni fa, a Gianni Mura: «La Sardegna allora non era la Costa Smeralda, l’Aga Khan, era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione. Dall’aereo, sembrava di andare in Africa. Un aereo che non andava oltre i quattromila metri, viaggi da incubo. Sono arrivato a Cagliari massacrato dalla vita, incazzato, chiuso e anche cattivo, se mi toccavano reagivo. Ero senza famiglia e ne ho trovate tante: quella del pescatore che m’invitava a cena, quella dell’edicolante, del macellaio, del pastore. Quando giocavamo a Milano, a Torino, c’erano cinque-seimila sardi che arrivavano dalla Germania, dalla Svizzera, dalla Francia. Mi dispiace di non aver tenuto tutte le loro lettere, ne basterebbe una o due per far capire perché abbiamo amato Cagliari, la Sardegna. Tutti, non solo io». Non se ne andò mai più Gigi Riva. Lo cercarono tutti. E la Juve più di tutti. Ma disse sempre no. Perché la Sardegna, tutta, era diventata la sua famiglia. E perché i suoi compagni contavano su di lui, in un’epoca in cui gli stipendi non erano granché, gli sponsor non esistevano e si viveva anche di premi partita. Martiradonna un giorno gli chiese di restare senza girarci troppo attorno: «Rimani perché devo ancora finire di pagare la cucina». Era un altro mondo. Un mondo in cui Gigi Riva avrebbe potuto, come molti suoi colleghi di oggi, essere una divinità. Ma lui scelse di non esserlo. Scelse di restare sempre come gli altri, orgoglioso, schietto, di poche parole e ancor meno fronzoli. Se n’è andato così, quasi in silenzio. Senza nemmeno lasciarci il tempo di preoccuparci per lui, ma solo di piangerlo".

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