lunedì 5 agosto 2024

IL CONFLITTO DI SA JANNA BASSA AD ORUNE (17/12/1979)

Di Redazione.


Il conflitto di Sa Janna Bassa fu un drammatico conflitto a fuoco avvenuto tra alcuni malviventi della criminalità barbaricina e i carabinieri guidati dal capitano Enrico Barisone, che causò la morte di due banditi e l'arresto di altri. Nella notte tra il 16 ed il 17 dicembre di quell'anno, il capitano Barisone, Capitano della Compagnia dei Carabinieri di Bitti, stava compiendo un giro di perlustrazione con due carabinieri nelle campagne di Orune quando giunsero nei pressi dell'ovile di Carmelino Coccone in località Sa Janna Bassa. Attirati da insoliti movimenti, intimarono l'alt alle persone fuori dall'ovile che subito aprirono il fuoco. Barisone rimase ferito a una spalla ma proseguì coi suoi uomini l'azione che portò alla morte dei pastori Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti. Alcuni banditi riuscirono a scappare mentre furono arrestati Carmelino Coccone, Sebastiano e Pietro Masala, Pietro Malune, Antonio Contena, Mario Calia, Mauro Mereu e Melchiorre Deiana. Il capitano Enrico Barisone I carabinieri erano convinti di aver interrotto una sorta di importante summit della malavita isolana che avrebbe portato a un pericoloso avvicinamento tra l'organizzazione eversiva dei terroristi di Barbagia Rossa e l'ambiente dei sequestri di persona. In un primo momento si pensò di aver sgominato l'intera banda responsabile del sequestro di Fabrizio De André e Dori Ghezzi o di quello di Annabelle e Daphne Schild. A sa Janna Bassa vennero rinvenuto volantini di Barbagia Rossa nelle giacche di Pietro Coccone (nipote di Carmelino e responsabile del gruppo terrorista) e di Giovanni Maria Bitti. Che a Sa Janna Bassa si tenesse un importante incontro fra eversivi e Anonima Sequestri lo confermerà qualche anno più tardi, nel 1982, il brigatista romano Antonio Savasta. Dopo essere stato arrestato, Savasta entra nelle file del pentitismo e conferma come a Orune si stesse tenendo un vertice tra alcuni esponenti delle Brigate Rosse e di Barbagia Rossa per discutere sull’eventuale costituzione di una colonna sarda delle Br.

Il 2 febbraio 1980 si tenne l’udienza finale del processo sulla vicenda di Sa Janna Bassa. I giudici della Corte d’Assise del Tribunale di Nuoro condannarono Carmelino Coccone a quindici anni, Pietro Malune, Mauro Mereu, Pietro e Sebastiano Masala ad undici anni ciascuno, Melchiorre Deiana a quattro anni. I reati sono quelli di concorso nel tentato omicidio del capitano Barisone, porto e detenzione di armi comuni e da guerra, favoreggiamento e resistenza aggravata.

Due banditi uccisi, un carabiniere ferito, otto arresti: è il bilancio di una operazione condotta dall'Arma nel quadro delle misure antisequestro adottate dal comando del capoluogo barbaricino. Il conflitto è avvenuto in una zona tra le più calde della Barbagia, nel famoso triangolo Bitti-Orune-Nuoro. Una pattuglia dei carabinieri guidata dal capitano Enrico Barisone, si trovava in perlustrazione in località Sa Janna Bassa, quando è stata messa sull'avviso da movimenti strani che si svolgevano in un ovile poco distante. Un uomo della pattuglia si avvicinava. All'aperto, poco fuori dal recinto dove vengono tenute le pecore, quattro uomini conversavano tra loro. «Cosa fate?»: chiedeva il milite. I quattro, che certo avevano qualcosa da nascondere, davano inizio ad un tentativo di fuga e riuscivano a raggiungere i vicini macchioni. Circondati, aprivano il fuoco contro la pattuglia. Il capitano Barisone veniva colpito ad una spalla, per fortuna in modo non grave. Seguiva una sparatoria e due dei quattro guardiani dell'ovile rimanevano stesi al suolo, senza più vita. Gli altri due cercavano scampo nelle campagne circostanti, ma pochi minuti dopo, a bordo di una jeep, i carabinieri riuscivano a raggiungerli ed a catturarli. In quel momento, arrivati i rinforzi da Nuoro, cominciava il rastrellamento metro per metro. Alla fine della vasta battuta sono state fermate parecchie persone. Per otto di esse il fermo si è tramutato in arresto. Solo uno degli uccisi è stato identificato: Francesco Masala, trent'anni, nativo di Orune, condannato nel marzo del 1977 a ventidue anni di carcere per l'omicidio del muratore Francesco Cosseddu. L'altro bandito ucciso, è Giovanni Maria Bitti. Trentaquattro anni, nativo di Sassari era evaso il 26 maggio scorso dal carcere di Alghero, dove stava scontando ventidue anni di reclusione per omicidio e altri reati. Non si conoscono i nomi dei due uomini catturati nel corso della sparatoria: si trovano sotto interrogatorio, e dare le loro generalità potrebbe risultare compromettente ai fini del buon andamento delle indagini. Cosi sostengono i carabinieri. Volgono fatti, invece, i nomi di tutti gli otto arrestati; Mauro Mereu, Carmelino Coccone, Antonio Contena, Pietro e Sebastiano Masala (fratelli di uno degli uomini che son stati uccisi), il latitante Pietro Malune (ricercato per rapina), Mauro Calia, oltre ad un ragazzo di diciassette anni Melchiorre Deiana.

«Papà è all'ospedale, perché stanotte ha avuto uno scontro con i banditi, ma non è grave. Non ti preoccupare». «Quanti banditi ha preso?». «Dieci e tutti in una volta sola». «Era ora, non riusciva a prendere mai nessuno!». Itala Barisone, una ragazzina che frequenta le elementari nella cittadina di Bitti, nel Nuorese, stamattina ha avuto questo scambio di battute con la madre. Il capitano dei carabinieri Enrico Barisone, trentasei anni, ricoverato all'ospedale di Nuoro, ride della figlia raccontando la scenetta. Sono passate molte ore dalla sparatoria, la tensione è allentata e ha persino voglia di scherzare. Eppure Barisone ha le ferite di una scarica di panettoni nella spalla sinistra, una sferetta di piombo (estratta dal chirurgo) era vicinissima all'arteria omerale e poteva procurargli la morte per dissanguamento. Nella notte fra domenica e lunedi, è stato l'artefice di uno dei rari «colpi grossi» delle forze dell'ordine in Sardegna: la cattura di una banda, riunita in un ovile (a quindici chilometri da Nuoro in linea d'aria), per un vertice criminale: otto arrestati e due banditi morti, uccisi dall'ufficiale quando già era stato raggiunto dal colpo di fucile alla spalla. Ora corre una voce a Nuoro. Si dice che, sgominata questa banda, c'è da aspettarsi da un giorno all'altro che siano arrestati altri fiancheggiatori dei banditi e soprattutto che alcune persone sequestrate, Dori Ghezzi, Fabrizio De André, le due inglesi, madre e figlia, Annabelle e Daphne Schild, siano liberate. O meglio, che siano rilasciate spontaneamente dai carcerieri ancora latitanti, ma ormai senza capacità di continuare le trattative per il riscatto. E lei, capitano Barisone, che cosa faceva? «Ero li per caso non c'era niente di preordinato. Eravamo io e tre carabinieri su una Campagnola: sarebbe stato da pazzi accerchiare in quattro un ovile, sapendo che c'erano dentro dieci banditi armati fino ai denti, mitra e bombe a mano comprese. Il caso, ripeto, anche se da qualche tempo stiamo intensificando l'opera di prevenzione e repressione in tutta la Sardegna, opera che non tarderà a dare buoni frutti». Lei è di Acqui Terme: come mai non ha più l'accento piemontese? «Sono qui da dieci anni, abbastanza per dimenticare l'accento e per battere sulle doppie come fanno i sardi. Anche quando ho gridato a quelli dell'ovile di alzare le mani e di non muovere un dito, mi devono avere scambiato per un sardo». E' stato tutto facile? Non ha avuto paura? «Facile non direi. Quanto alla paura, non ho avuto il tempo di accorgermene. Era passata la mezzanotte di domenica; sulla Campagnola tornavamo verso Bitti da Orune, dopo un pomeriggio passato a Lula, in servizio per le elezioni comunali. Una mulattiera, ad un certo punto, si innesta nella strada provinciale e abbiamo visto una macchina che la percorreva scendendo verso la nostra Campagnola». Erano i banditi? «No, ma due nostre vecchie conoscenze. Li abbiamo fermati, ci hanno dato una giustificazione poco credibile. Dicevano di essere andati sul monte a tagliare legna, per raccoglierla l'indomani. Ho fatto finta di credergli, li ho lasciati andare verso Orune. Poi con la Campagnola abbiamo imboccato la mulattiera, seguendo a ritroso le tracce della vettura appena passata. Pioveva, sul fango si vedevano bene i segni delle ruote. Una strada impossibile, piena di buche. Siamo andati avanti per cinque-sei chilometri, una curva dopo l'altra, in direzione della punta Sa Pade, un monte alto ottocento metri. Ogni tanto spegnevamo i fari. Ad un certo punto ho visto la luce di una lanterna, ad un chilometro sulla destra». Era l'ovile della sparatoria? «Noi non lo sapevamo. Quando siamo arrivati ad una decina di metri dalla casupola, ho visto tre ombre contro il muro di pietra. Abbiamo puntato contro di loro un faretto. Ho gridato di alzare le mani a quegli uomini, di non fare un movimento. Il faretto illuminava l'unica porta e una vicina finestrella del casolare, una costruzione di pietra di quindici metri quadrati. I miei tre uomini mi proteggevano le spalle e io mi sono fatto avanti, la pistola in pugno. Questione di secondi, ho visto uno dei banditi imbracciare un mitra, l'altro puntarmi addosso un fucile da caccia, il terzo scappare come una lepre». Chi ha sparato per primo? «Quello col fucile: ho sentito come una mazzata alla spalla sinistra. Ma non sono caduto, ho avuto il tempo di scaricare sei colpi di pistola addosso ai due. Non sono un cattivo tiratore ed ho distribuito le pallottole sui due bersagli. Mi è sembrato che quello col mitra non riuscisse ad armarlo, mentre chi imbracciava il fucile si è afflosciato lentamente. Ho avuto un po' di fortuna, evidentemente. Un bossolo di traverso, incastrato nel fucile a pallettoni, ha inceppato l'arma e non ha permesso al bandito di scaricarmi addosso il secondo colpo». Altri otto banditi erano nel casolare, barricati. Il capitano Barisone, sanguinante è stato trascinato indietro da un carabiniere, che affannosamente lo ha sorretto conducendolo fino alla Campagnola. Gli altri due militari sono rimasti con la luce ed i mitra puntati contro porta e finestrella del casolare. «Un'ora di inferno in attesa che il capitano arrivasse con la Campagnola ed avvertisse il comando di mandare i rinforzi». Da Nuoro sono partiti verso l'una di notte il maggiore Murtas ed un solido gruppo di carabinieri, diretti dal colonnello Pastore comandante del gruppo. Il casolare è stato accerchiato, i banditi stanati. Sono usciti con le mani incrociate dietro la nuca. Avevano abbandonato per terra pistole ed una decina di bombe a mano. Gli arrestati sono Carmelino Coccone. trentanove anni, padrone dell'ovile. Mauro Mereu, ventisette anni, Pietro Malune, ventidue anni. Pietro e Sebastiano Masala di ventinove e quarantacinque anni; Mario Calia trentasei anni. Antonio Contena, ventotto anni, e un ragazzo di diciassette anni, Melchiorre Deiana, servo pastore di un ovile situato pochi chilometri a monte. Difficile l'identificazione dei due banditi morti. Il primo. Francesco Masala, trentadue anni, era latitante dal 1974, incriminato per un omicidio: era fratello degli altri Masala arrestati. Il secondo bandito morto, ma i carabinieri non ne hanno fornito il nome, era anch'egli alla macchia da qualche anno, dopo che gli era stata addebitata una rapina in un ufficio postale. Gli inquirenti non escludono l'ipotesi che quel vertice fosse per decidere se liberare Dori Ghezzi e De André in cambio di soli trecento milioni (questa è la cifra che i familiari potrebbero offrire al massimo) e se rilasciare le due donne inglesi per le quali l'ingegner Schild, ormai da mesi, insiste disperato a far sapere di non poter pagare una lira.

In un documento firmato da dieci imputati al processo contro Barbagia Rossa nel 1983, la strage di  Sa Janna Bassu assume il ruolo di spartiacque per i comportamenti dello stato italiano nei confronti della militanza nei gruppi antagonisti dell’isola. “Sa Janna Bassa è fine ed inizio del progetto della borghesia sul territorio. Fine perché sancisce un punto di non ritorno, oltre il fallimento delle illusioni pacificatrici affidate alle soluzioni economiche; inizio perché a partire da quel momento lo stato articolerà tutta una serie di iniziative tese a scorporare e disperdere la solidarietà dell’habitat sociale entro cui l’antagonismo esprimeva le sue iniziative e la propria identità.”

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