giovedì 26 settembre 2024

SCHILLACI DALLE NOTTI MAGICHE AI RAGAZZI DELLA SCUOLA CALCIO (15/05/2011)

Di Redazione.


Gli occhi sono quelli lì, quelli che gridarono incredulità, sorpresa, riscatto nella favola senza happy end di Italia ‘90. Quelli che esplosero dopo il gol decisivo con l’Austria a un quarto d’ora dalla fine, che esultarono nella sfida con la Cecoslovacchia, che quasi uscirono fuori dalle orbite agli ottavi con l’Uruguay, ai quarti con l’Eire. Quelli, infine, che piansero nella semifinale con l’Argentina, davanti al sogno svanito della Coppa del Mondo.

Gli spalti in delirio per Totò Schillaci (NELLA FOTO IN ALTO), quel giocatore semisconosciuto che veniva da una borgata di Palermo, per quel fascio di muscoli e rabbia che l'anno prima giocava ancora in serie B, nel Messina, per quel terrone che faticava a coniugare i congiuntivi ma che quando segnava sembrava posseduto da un demone. «Me lo ripetevano fino all’ossessione quell’insulto, a Torino me lo scrissero sotto casa quando giocavo nella Juve, ma a me da qui mi entrava e da qui mi usciva», dice indicando le due orecchie. «Abitavo in via Filadelfia, vicino allo stadio comunale - ricorda - una mattina scesi e vidi sul muro quella grande scritta fatta con lo spray: terrone di merda. Pensai che doveva essere un tifoso del Toro». Sorride, sornione.

Totò Schillaci fu il simbolo di quella stagione, di quelle notti magiche, l’incarnazione del povero che diventa ricco, del cuore e della passione che trascendono tutti i limiti, il primo dei Paperoni ex borgatari, diversi anni prima di Totti e Cassano, «tempi in cui l’umiltà era ancora un valore». Qui, nella Palermo dove è nato nel 1964, nel quartiere di casermoni dove è cresciuto che si chiama Cep (Centro edilizia popolare), Schillaci è seduto al tavolo del bar della scuola di calcio «Louis Ribolla» dove ha tirato i primi calci. Capisci che sei arrivato quando vedi il suo faccione troneggiare sul gigantesco cartellone pubblicitario di un negozio di ottica.

Nei mesi scorsi campeggiava sulle pagine dei giornali locali come volto di una finanziaria che promette prestiti e cessioni. «Niente di importante - si schermisce lui nel suo spassoso slang - sono cose che faccio per gli amici. A me piace fare un po’ di tutto: l'attore, il personaggio televisivo, il testimonial, lo sportivo nella squadra delle vecchie glorie. Sto per andare a Bologna per una serata in discoteca: mi faccio vedere, firmo autografi, guadagno divertendomi, cosa c’è di meglio? E poi c’è questo posto, che per me è importante».

Già. Da undici anni è lui ad avere rilevato la scuola che lo vide bambino, i due fratelli Giovanni e Giuseppe a portare avanti il punto di ristoro, il padre - ex muratore oggi pensionato -, a dare una mano in magazzino. Accanto Giuseppe De Domenico, per tutti il «mister», intorno aspiranti calciatori dai cinque ai diciassette anni, molti con seguito di genitori trepidanti.

Lui, Totò, guarda il mondo con il distacco di chi ha visto le stalle e le stelle, ascese vertiginose e cadute precipitose. Camicia bianca dischiusa sul petto, fisico asciutto, tatuaggi che sbucano fuori dalle braccia e dal collo, abbronzatura da lampada, quei ciuffi di capelli un po’ incongrui che decise di impiantarsi sulla testa semipelata dopo essere diventato un campione. «Mi hanno sfottuto un sacco, lo so, ma chissenefrega. Se a me piace una cosa la faccio e non ascolto nessuno, e all’estetica ci tengo». Lo dice insieme con saggezza e strafottenza, questo quarantasettenne che conserva l’'aria da ragazzo nonostante due matrimoni alle spalle e tre figli: Jessica, Mattia e la più piccola, Nicole, dieci anni.

Mattia si materializza dopo un po’. Occhi celesti, capelli biondi da cherubino, sguardo furbetto come il padre. «Ha vent’anni, deve fare la maturità scientifica, non che impazzisca per studiare - racconta Totò -. D’altronde io non posso proprio parlare, ho lasciato alla seconda media, e il più delle volte facevo finta di andare a scuola e non entravo. Non era una cosa per me. Adesso un po’ mi dispiace, ho perso tante cose importanti, ma è più forte di me, non ho pazienza e non so stare fermo».

Si accende un sigaro, «il primo della mia vita, me l’hanno appena regalato, di solito fumo sigarette, fumavo anche negli anni dell’agonismo». Pure durante i Mondiali? «Sì. Non è vero che i giocatori non fanno niente, questa storia del niente sesso è una balla, certo non bisogna esagerare, comportarsi in campo da professionisti. E io credo di averlo fatto». E se gli chiedi di quel «Ti faccio sparare» gridato a Fabio Poli al termine di un Bologna-Juventus a nervi tesi, ammette: «Avrei dovuto contare fino a dieci. Ma lui mi aveva provocato con uno sputo e io non ci ho visto più. Ho sbagliato ma mi hanno massacrato come fossi stato un killer».

Lui la parte del boss l’ha appena fatta nella fiction «Squadra antimafia 3», solo due puntate «perché dopo mi ammazzano e muoio. Peccato. Ma è stato divertente, anche se spesso sbagliavo le battute e me le facevano rifare. Sembra tutto perfetto in tv, ma loro possono ripetere fino alla perfezione, nel calcio no. Il calcio è verità, come la vita».

Per lui calcio e vita sono sempre state la stessa cosa, dal primo ingaggio nella squadra dell’Amat, la società dei trasporti della città. «Quando finivo di allenarmi, andavo a giocare in uno spiazzo del quartiere, le pietre per indicare le porte. Mettevamo ciascuno cinquemila lire, tutti volevano me in squadra per vincere. Era una bella cifra, soprattutto per noi che eravamo poveri».

I soldi, quelli veri, Schillaci li ha visti soprattutto in Giappone, dove è andato nel 1994 a giocare nello Jubilo Iwata - primo calciatore italiano a tentare l’avventura del Sol Levante al termine di due stagioni non entusiasmanti con la maglia dell’Inter. Il ritiro dall’agonismo nel 1999.

L’anno dopo, una breve avventura come consigliere comunale nell’allora Forza Italia. «Me lo chiesero alcuni miei amici, non seppi dire di no, anche se io di politica non ne ho mai capito niente e niente ne ho voluto capire. Ricordo due mesi di faticosissima campagna elettorale in paesi e borgate, poi quelle sedute infinite del consiglio comunale dove non si combinava niente. Dopo due mesi gli ho detto: sapete che c’è? Andate tutti affanculo»

Sofferenza peggiore che nell’Isola dei famosi, il reality cui si convinse a partecipare nel 2004, finalista con Kabir Bedi, il Sandokan della tv, la strana coppia che gareggiava in esotismo: «Ricordo grande fame per i primi quindici giorni, le litigate con Antonella Elia, le strategie fra gruppi». Arrivò secondo, anche questa volta a un passo dalla vittoria, come ai Mondiali del ’90.

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