martedì 13 dicembre 2011

E L'OPERAIO DIVENTA COLLETTO BIANCO PER SALVARE IL POSTO DI LAVORO (02/01/1993)

Di Giampaolo Carboni.

Se il fronte dell' occupazione è il banco di prova più duro per il Paese in questo 1993 è meglio iniziare con una buona notizia. I cento quaranta dipendenti della Elizabeth Arden, i "creativi" della lotta come li hanno definiti i giornali per quelle lettere scritte alla Regina d' Inghilterra e i voli in mongolfiera, ce l' hanno fatta. Manterranno il loro posto di lavoro, l'azienda oggi in mano alla multinazionale Unilever probabilmente sarà ceduta, ma dovrebbe continuare l' attività. Per un caso che si chiude positivamente ce ne sono purtroppo almeno cento che esplodono lungo tutta la Penisola, ormai così numerosi che nemmeno le cronache più ampie dei grandi strumenti di informazione riescono a registrare. Ministri,
industriali, sindacati, esperti di varia natura si sono cimentati negli ultimi giorni del 1992 in un gioco assai crudele, quello di dare i numeri, di prevedere in migliaia di unità i posti di lavoro a rischio per quest' anno. Il balletto delle cifre Per il governo quelli davvero in pericolo sono duecento trenta mila, per la Cisl si sale a quattrocento mila, un rapporto del Centro Einaudi arriva a seicento cinquanta mila. Chiudiamo il cerchio ricordando che la situazione non è drammatica solo da noi: l' Ocse prevede trentaquattro milioni di disoccupati quest' anno nei ventiquattro Paesi dell' Organizzazione dell' Occidente industrializzato. I minatori britannici come i venticinquemila dipendenti dell' Ibm che saranno cacciati, i trentamila siderurgici tedeschi sulla via del licenziamento come quei quattro dipendenti dell' Enichem di Villacidro in Sardegna rimasti per oltre un mese in cima a una ciminiera per chiedere un posto. Le cifre danno il segno di una Depressione, anche se alcuni macro-economisti ci hanno già spiegato che nel 1992 il terziario ha comunque compensato la perdita di occupazione nell' industria e che la scommessa di quest' anno si giocherà sul rafforzamento dei servizi, con soluzioni innovative. 
E, forse, è questo che intendono dire quando i trecento cinquanta dipendenti dell' Olivetti di Crema devono passare dalla loro fabbrica alle scrivanie della pubblica amministrazione, o quando qualcuno propone di trasformare l' Innocenti di Lambrate, uno dei poli storici della Milano industriale, in un supermercato con gli operai a fare i commessi. Viene in mente la crisi degli anni settanta dalla quale si uscì con la "terziarizzazione", una parola brutta per dire che c' erano meno operai e più impiegati. Ma la realtà sociale oggi è ben diversa e nemmeno quelli del posto sicuro - bancari, impiegati, servizi - sono al riparo dalla minaccia della disoccupazione. Un viaggio all' interno della crisi italiana in questo inizio del nuovo anno fotografa una situazione in deciso deterioramento e la vocazione del governo a pianificare interventi in opere pubbliche per creare occupazione ci offre l' immagine - questa nessuna l'aveva ancora prevista - di un Giuliano Amato trasformato in un novello Frank Roosevelt. 
Ma se diventa difficile pensare che duemila trecento cinquanta miliardi, questo lo stanziamento del governo, possano arginare la disoccupazione dilagante,appare ancora più preoccupante per le prospettive del tessuto industriale del Paese che non ci siano in giro nuovi progetti. Nessuno investe più, le aziende non comprano macchinari, i processi di innovazione rimangono fermi. L' ultimo Rapporto di Mediobanca, una specie di check up dell'economia nazionale, ci ha spiegato che le aziende sono troppo indebitate,non hanno soldi, devono chiederli alle banche a tassi crescenti. Hanno il fiato corto, pianificano la sopravvivenza, non lo sviluppo. Ad essere sinceri, le uniche due iniziative imprenditorali di un certa dimensione in via di realizzazione sono finanziate entrambe dalla discussa legge sessantaquattro per gli investimenti nel Mezzogiorno che non piace alla Lega di Bossi: la Fiat a Melfi, la Piaggio in Campania. E il caso Melfi, certamente il progetto industriale più importante in divenire non solo per la Fiat ma anche per l'industria nazionale, ci offre qualche indicazione sulla "voglia" di lavoro.
La casa automobilistica torinese deve assumere settemila persone entro la fine di quest' anno. Secondo i dati della stessa Fiat le domande presentate sono più di cinquantamila, e la maggior parte sono persone con un titolo di studio, diplomati e laureati. E, per restare in casa Fiat, se Melfi offre uno squarcio positivo, i sindacati al Nord sono già preoccupati per possibili ulteriori tagli, dopo quelli di Desio e Chivasso, che potrebbero investire storici impianti come l' Alfa Romeo di Arese. Si vedrà. In questa situazione di emergenza occupazionale, vengono lanciate proposte "nuove" per favorire l' accesso al lavoro dei giovani e la creazione di posti. Arriva il salario d'ingresso (in sostanza i neoassunti vengono pagati di meno dei livelli contrattuali), si riparla di "gabbie salariali", di differenziazione delle retribuzioni tra le diverse zone del Paese, principalmente tra il Nord e il Sud. E dietro queste ultime ipotesi c' è spesso, come hanno riscontrato alcune autorevoli voci sindacali, anche il tentativo di dividere surrettiziamente i lavoratori, di riproporre con terminologie diverse le "zone salariali" del passato. D' altra parte se, come ha detto Cesare Romiti ai tempi del lancio dell' operazione Melfi, "l' industria è il collante dell'unità nazionale" perché, poi, qualcuno vuole pagare in maniera differenziata proprio la gente che fa lo stesso lavoro in diverse aree geografiche? 
Orizzonte nerissimo Il 1993, dunque, l' anno del grande mercato europeo, si presenta con un orizzonte nerissimo. Mobilità, cassa integrazione, prepensionamenti. Chiusure, ristrutturazioni, spostamenti di impianti. Pirelli ed Enichem, Fiat e Olivetti, Efim e Maserati, Montecatini e Ansaldo, sono le tappe più dolorose di un terremoto che sta scuotendo il Paese, una sisma le cui vibrazioni hanno come vittime i posti di lavoro.
Nessuna nega che l' economia e l' industria italiane abbiano bisogno di una profonda razionalizzazione, è più difficile affermare se tutto è colpa della recessione oppure se la classe imprenditoriale non abbia qualche grave responsabilità. Se, ad esempio, quelli che hanno sempre reclamato a gran voce la tutela del libero mercato, quasi che ci fosse la mano invisibile di Adamo Smith a risolvere tutti i problemi, non abbiano commesso qualche grosso errore nella conduzione delle loro aziende che adesso altri devono pagare. 
In ogni caso oggi non basta che la Fiat o l' Olivetti riprendano a fare bene, la crisi è troppo diffusa nel Paese, investe milioni di famiglie. E' tutto il sistema che deve reagire. Come spiegava qualche tempo fa uno studio di Comit-Prometeia "solo una risposta dell' intero sistema economico, in termini di disinflazione, potrebbe porre le condizioni per un veloce e significativo recupero dello stato di salute dell' industria italiana".
E ancora: "Al contrario di quanto avvenne tra le fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta le risposte da parte del solo sistema industriale non sembrano infatti poter produrre effetti rilevanti".

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