martedì 2 luglio 2024

L'OMICIDIO DI MARCO BIAGI A BOLOGNA (19/03/2002)

Di Redazione.


L'omicidio del giurista Marco Biagi (NELLA FOTO IN ALTO) avvenne a Bologna poco dopo le venti di questo giorno, da parte delle Nuove Brigate Rosse.

La sera, Biagi, in sella alla sua bici, percorse il tratto di strada che separava la sua abitazione di via Valdonica dalla stazione dove, poco prima, era sceso dal treno che da Modena (dove era docente alla facoltà di economia) lo riportava ogni sera a Bologna. Sceso dal treno, chiamò la moglie e avvertì che stava per arrivare, poi inforcò la bicicletta e si diresse verso casa. Di sentinella alla stazione e lungo la strada che portava al suo domicilio c'erano già due persone che seguivano i suoi movimenti, avvertendo gli altri complici dei progressivi spostamenti dell'obiettivo. Alle venti e sette un commando formato da altri tre brigatisti, due a bordo di un motorino e un terzo (la staffetta) a piedi, lo aspettava di fronte al portone della sua abitazione, al civico numero quattordici. I due terroristi si fecero incontro al professore, indossando caschi integrali, e aprirono il fuoco esplodendo sei colpi in rapida successione in direzione di Biagi, per poi allontanarsi molto velocemente. Alle venti e quindici, Biagi morì tra le braccia degli operatori del 118 accorsi sul posto. L'arma usata nell'azione, si scoprì dopo, risultò la stessa del delitto di Massimo D'Antona. Nel compiere l'agguato, i brigatisti vennero agevolati soprattutto dal fatto che Biagi girava senza protezione dopo che, qualche mese prima, gli era stata revocata la scorta, come ebbe a testimoniare anche Cinzia Banelli, la terrorista pentita che, al processo per l'uccisione del giuslavorista, raccontò proprio che "Se Marco Biagi avesse avuto la scorta non saremmo riusciti ad ucciderlo. Per noi due persone armate costituivano già un problema. Non eravamo abituati ai veri conflitti a fuoco. Avremmo dovuto fare più attenzione, osservare possibili cambiamenti nella situazione del professore. Dovevamo controllare che non fosse solo. Invece arrivò alla stazione di Bologna da solo".

Il documento di rivendicazione che, a firma delle Nuove Brigate Rosse, venne inviato via mail (in un file di ventisei pagine) la stessa notte del 19 marzo a cinquecento indirizzi di posta elettronica di diverse agenzie e quotidiani, presenta per gli esperti molte analogie con quello del precedente delitto di Massimo D'Antona e, al suo interno, vi si individua una certa logica criminale dell'Organizzazione che progettava di colpire uomini dello stato legati a un contesto di ristrutturazione del mercato del lavoro: "Il giorno 19 marzo 2002 a Bologna, un nucleo armato della nostra Organizzazione, ha giustiziato Marco Biagi consulente del ministro del lavoro Maroni, ideatore e promotore delle linee e delle formulazioni legislative di un progetto di rimodellazione della regolazione dello sfruttamento del lavoro salariato, e di ridefinizione tanto delle relazioni neocorporative tra Esecutivo, Confindustria e Sindacato confederale, quanto della funzione della negoziazione neocorporativa in rapporto al nuovo modello di democrazia rappresentativa. Una democrazia "governante" che già accentrante nell'ultimo decennio i poteri nell'Esecutivo e nella maggioranza di governo ora con la riforma dell'articolo V della Costituzione (detta "federale") vedrà ripartite competenze e funzioni agli organi politici locali entro i vincoli di indirizzo e di bilancio centralizzati e legati all'integrazione monetaria europea, con il fine di stabilizzare l'avviata alternanza tra coalizioni politiche incentrate sugli interessi della borghesia imperialista, sfruttando il restringimento della base produttiva nazionale non solo come vantaggio competitivo nei livelli di sfruttamento della forza lavoro rispetto ai sistemi economici di altri paesi, ma come condizione per riadeguare il dominio della borghesia imperialista e rafforzarlo nei confronti delle istanze proletarie e delle tendenze al loro sviluppo in autonomia politica antistatuale e antistituzionale che nascono da queste condizioni strutturali. Con questa azione combattente le Brigate Rosse attaccano la progettualità politica della frazione dominante della borghesia imperialista nostrana per la quale l'accentramento dei poteri nell'Esecutivo, il neocorporativismo, l'alternanza tra coalizioni di governo incentrate sugli interessi della borghesia imperialista e il "federalismo" costituiscono le condizioni per governare la crisi e il conflitto di classe in questa fase storica segnata dalla stagnazione economica e dalla guerra imperialista." (Nuove Brigate Rosse, Rivendicazione omicidio Marco Biagi).

Nel processo di primo grado, il 1º giugno 2005, la Corte d'assise di Bologna, dopo ventidue ore di camera di consiglio, condannò a cinque ergastoli altrettanti componenti delle Nuove BR: Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Diana Blefari Melazzi e Simone Boccaccini. Il 6 dicembre 2006, la Corte d'assise d'appello confermò l'ergastolo per Diana Blefari Melazzi, Roberto Morandi, Nadia Desdemona Lioce e Marco Mezzasalma, riducendo a ventuno anni di reclusione la condanna per Simone Boccaccini, riconoscendogli le attenuanti generiche. Nel terzo e ultimo grado di giudizio, l'8 dicembre 2007, la quinta sezione penale della Corte di cassazione di Roma confermò il verdetto emesso in secondo grado rendendo definitive le condanne ai cinque brigatisti responsabili, tranne che per Nadia Desdemona Lioce, la quale non aveva presentato ricorso in cassazione.

Prima di morire, Marco Biagi aveva scritto cinque lettere in cui si diceva preoccupato per le minacce che riceveva. Il testo delle lettere, indirizzate al presidente della camera Pier Ferdinando Casini, al ministro del lavoro Roberto Maroni, al sottosegretario al lavoro Maurizio Sacconi, al prefetto di Bologna e al direttore generale di Confindustria Stefano Parisi è stato pubblicato dal quindicinale Zero in condotta e poi riportato dal quotidiano la Repubblica. In tali lettere spiegava anche che la sua preoccupazione era causata dal fatto che i suoi avversari (Sergio Cofferati in primo luogo), criminalizzavano la sua figura. Biagi sostiene inoltre che una persona attendibile gli ha riferito che Cofferati lo aveva minacciato.


Il ministero dell'interno, in quel periodo diretto da Claudio Scajola, solo pochi mesi prima dell'attentato, aveva privato Marco Biagi della scorta, da lui richiesta proprio per timore di attentati da parte di componenti appartenenti all'estremismo di sinistra.


Una volta tolta, Biagi, tramite lettere scritte a diverse personalità politiche, ne fece nuovamente richiesta visto anche il perdurare delle minacce ricevute, ma questa non gli fu accordata. I brigatisti stessi ammisero che avevano deciso di colpire proprio Biagi in quanto poco protetto.

Il 30 giugno 2002 il Corriere della Sera ed Il Sole 24 Ore pubblicarono una chiacchierata tra l'allora ministro dell'interno, Claudio Scajola, e alcuni giornalisti che seguivano il ministro in visita ufficiale a Cipro.

«A Bologna hanno colpito Biagi che era senza protezione ma se lì ci fosse stata la scorta i morti sarebbero stati tre. E poi vi chiedo: nella trattativa di queste settimane sull'articolo 18 quante persone dovremmo proteggere? Praticamente tutte». E a questo punto il ministro sorprende i presenti quando gli viene detto che Biagi era comunque una figura centrale nel dialogo sociale: protagonista del patto di Milano, coautore del Libro Bianco, consulente del ministero del Welfare, della Cisl, della Confindustria. C'è un attimo di silenzio, Scajola volta le spalle, si blocca, azzarda: «Non fatemi parlare. Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza».

A causa delle polemiche suscitate da queste affermazioni, il 3 luglio 2002, Scajola rassegnò le sue dimissioni, al suo posto venne nominato Giuseppe Pisanu.

Nel mese di maggio 2014 la procura di Bologna riaprì l'inchiesta formulando l'ipotesi di reato di omicidio per omissione dopo aver ricevuto gli atti dalla procura di Roma che stava passando al vaglio le carte trovate durante la perquisizione nella casa di Luciano Zocchi, ex capo della segreteria dell'allora Ministro dell'Interno Claudio Scajola.

La sera del 4 aprile del 2002, i carabinieri trovarono il corpo di Michele Landi, impiccato con una corda intorno al collo, nella sua casa di Guidonia Montecelio, vicino a Roma. I militari, allertati dalla fidanzata dell'uomo, quando arrivarono sul posto, notarono subito la strana posizione del cadavere che, con le gambe piegate e le ginocchia appoggiate sul divano, sembrò piuttosto anomala. La situazione non sembrava riconducibile a un suicidio, ma piuttosto a un omicidio presentato come suicidio.

Probabilmente l'intera vicenda non avrebbe suscitato tanto scalpore se non fosse che Landi, in qualità di esperto informatico, proprio in quei giorni stava lavorando, in maniera indipendente (visto che quell'inchiesta era nelle mani di una squadra investigativa che già si avvaleva di consulenti propri) e senza nessun incarico ufficiale, nell'indagine sull'omicidio di Marco Biagi e, nello specifico, sul possibile mittente da cui era partita la rivendicazione delle Nuove Brigate Rosse. E anche in passato Landi era stato nominato consulente informatico dal collegio difensivo di Alessandro Geri, il presunto telefonista (in seguito scagionato) delle Nuove Br nell'omicidio di Massimo D'Antona.

Nei mesi successivi molte voci si alternarono sulla possibilità di un collegamento tra questa morte e le indagini che Landi stava svolgendo, ma nessuna ipotesi di questo tipo ha mai trovato conferma ufficiale. Secondo gli inquirenti che seguirono il caso, tutte le evidenze porterebbero a escludere l'omicidio e a circoscrivere la soluzione a due ipotesi: suicidio o morte accidentale per soffocamento. E nel 2004 si giunse a una richiesta di archiviazione perché non sussisteva alcun reato che coinvolgesse terze persone.

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