mercoledì 14 dicembre 2011

LA MORTE DI ANTONIO ATZA (19/01/2009)

Di Redazione.

Antonio Atza (NELL'AUTORITRATTO IN ALTO) è andato, in silenzio, a raggiungere le nuvole ed i gabbiani suoi amici, protagonisti dei tanti paesaggi solari lasciati da uno dei più apprezzati e amati pittori del Novecento sardo. È volato via, sulla soglia degli ottantacinque anni, nel cielo di Bosa accarezzando con sguardo affettuoso le rive del Temo dove aveva passato gran parte dell'infanzia, dove cominciò a dipingere, dove sono custodite le più significative opere del suo straordinario percorso artistico e dov'era ricoverato da qualche mese in seguito a un'aggressione ischemica che ne aveva indebolito il fisico, pur senza abbatterne lo spirito, la voglia di scherzare e la volontà di tornare ai pennelli. Un improvviso peggioramento legato anche a complicazioni polmonari lo ha tradito poco prima dell'alba di quest'oggi.
Era nato a Bauladu. Lì il sindaco e gli altri amministratori del paese, gli amici di un tempo e i giovani di oggi gli avevano dedicato, neppure un anno fa, una mostra antologica: l'ultima. E lui aveva ricambiato con l'ultimo dei suoi quadri: la collinetta fiorita che sovrasta l'abitato, che ospita la chiesetta di Santa Vittoria e che lo vedeva bambino slanciarsi verso il pendio sul carrellino di ferula in gara con gli altri bambini. La tela - un emblema dell'autore e del suo ambiente natale - è da allora nella sala del Consiglio comunale.
Antonio Atza aveva circa sei anni quando dovette lasciare il carrellino e i giochi bauladini per seguire la famiglia a Bosa. Furono le sponde del Temo, le stesse frequentate da Melkiorre Melis, a rivelare la sua natura d'artista. Poté andare a Sassari per frequentare l'Istituto d'arte, fu allievo di Stanis Dessy, Filippo Figari, Salvatore Fara, inizialmente muovendosi sul terreno della concretezza.
Ma si librò presto dell'ascendenza dei suoi primi maestri: dopo un veloce passaggio d'impronta neofuturista, si sentì risucchiato dal ciclone Mauro Manca, al quale si affiancò come docente nell'Istituto d'arte dopo avere lasciato l'insegnamento scolastico (a Cuglieri, Jerzu, Gavoi, Cagliari). Splendidamente materico, s'impose a Cagliari con le sue sabbie collate e i suoi affascinanti “blues”, malinconiche melodie negre tradotte in immagini amorfe, buie, evanescenti, pessimiste. Fu mezzo secolo fa: Atza aveva appena dato vita allo Studio 58 con un gruppo di giovani artisti (Pantoli, Mibelli, Rossi, Brundu, Mazzarelli) che rifiutavano la “folcloristica” tradizione pittorica della prima metà del Novecento in Sardegna costituendo l'avanguardia artistica isolana. Lo storico dell'arte Salvatore Naitza ha ricordato la grande svolta di Atza in un significativo scritto del 1992: «Possiamo considerare come risultati di notevole importanza estetica (sia detto senza esagerazioni, storica per l'arte in Sardegna della seconda metà di questo secolo) sia la sabbia, sia gli straordinari Blues». Ma Naitza riconosceva qualcosa di più al pittore bosano: «In realtà, assieme a pochi altri espositori, era un professionista capace di eseguire opere secondo i canoni tradizionali (…), la qual cosa gli consentiva di padroneggiare la sconcertante situazione espositiva» di quegli anni.
Ai canoni tradizionali Antonio Atza sarebbe tornato in piena maturità artistica e anagrafica. La sua ricerca proseguì lungo un percorso di fantasmagorie emergenti dall'azzurro cupo (abissi marini o cosmici), di forme extraplanetarie sconosciute, magie surreali che indussero alcuni critici a tipizzare definizioni quali “arte fantastica” (Naitza) ed “ermetismo esoterico” (Mario Ciusa Romagna). Dopo il periodo materico e quello fantastico attraversò un'esperienza optical inventando le “vibrazioni”, immagini misteriose sotto una cortina di fili di lana geometricamente stesi al di sopra della tela: coloratissimi e capaci di produrre un intrigante effetto di movimento. Quindi l'approdo ai lidi delle “modificazioni”, opere di non modeste dimensioni caratterizzate dalla brillantezza dei colori e da scenari dove il mondo del sogno e quello della realtà si incontrano intersecandosi e separandosi attraverso uno “strappo” di immagine.
Un lungo e ammirato periodo quello del surrealismo lirico e della metafisica costruita con rara miscela di naturalismo, visioni oniriche e simbolismo. Poi il ritorno agli amati alvei, idealmente del Temo e pittoricamente del realismo puro, che hanno accompagnato gli ultimi anni di attività mai interrotta. Antonio Atza dipingeva ogni giorno e le sue opere sparivano rapidamente, oggetto del desiderio di collezionisti privati e pubblici. Nella sua casa cagliaritana non aveva più un quadro quando, cinque anni fa, gli venne proposta una mostra all'Exmà. A lui parve un invito provvidenziale, l'occasione giusta per fissare quegli angosciosi segnali che gli giungevano dalle follie del mondo attraverso la tv e i giornali: guerre, morti, atrocità, strazi continui e irrefrenabili. Così l'anziano pittore riaprì una vecchia parentesi di inquietante mostruosità nascosta nel profondo della psiche, ridando corpo agli enigmi della realtà e impregnandola di significati attraverso una tecnica che restituiva talenti già espressi agli esordi: la grafica. Ed ecco dunque le creature fragili, inquietanti nella loro rappresentazione di corpi post-umani straziati dai cui brandelli (carne, ossa, occhi d'incerta collocazione) si sprigionano sgomento, terrore, cattiveria, rimprovero, rassegnazione. Stavolta non galleggiano nello spazio vuoto, ma sono costretti dentro vaghe strutture immobilizzanti, eterni interpreti di quel che l'umanità nasconde nel buio della coscienza sporca.
Fu solo una parentesi emotiva: da allora il mondo non si può dire sia migliorato, anzi è peggiorato e qualsiasi denuncia si perde nel fragore del cinismo planetario. Ormai scoraggiato dalla cattiveria umana ma professionalmente appagato - raro artista “musealizzato” in vita - Atza si rifugiò ancora una volta nella ricca cromaticità della sua tavolozza, estraendone paesaggi luminosi, voli di uccelli, pacatezza di acque e campagne. Riemergevano colori e profumi del suo paese d'origine, le case, gli amici e i giochi della prima infanzia; ed oggi, dopo un'ottantina d'anni, la memoria nostalgica della collina di Santa Vittoria è concretizzata in un'opera d'arte dedicata a Bauladu. Il cielo, azzurrissimo e attraversato da nuvole, avvolge la chiesetta che in cima all'altura guarda un paesaggio di sfumature verdi, macchie di ginestre e colorati contrasti di fiori soffiati dalla brezza: così trasferita su tela, quel colle rappresenta la resistenza alle aggressive tentazioni edilizie.
Il Professor Antonio Atza resterà Bosa. I suoi resti mortali nel cimitero (dove saranno sepolti questo pomeriggio), il suo spirito nell'austera Casa Deriu, dove la Pinacoteca a lui intitolata offre l'opportunità di sfogliare le pagine artistiche di un grande affabulatore del pennello, interprete del mistero e del mito, degli scenari onirici e di quelli reali, dei labirinti freudiani, delle complessità informali e della lettura semplice della natura così come la vediamo, così come lui la riproduceva arricchendola con la sua anima gentile e affettuosa.

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