Di Caterina Pinna.
“Quando arriva il tempo in cui si potrebbe, è finito quello in cui si può”. Ci sono pensieri altrui, e questo appartiene alla scrittrice austriaca Marie von Ebner Eschembach, che diventano un efficace riassunto di quello che si è. Per questo Cristiana Collu, cagliaritana, tra dieci giorni direttrice della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma con pieni poteri, restituisce il pensiero a chi la interroga sul suo intenso percorso di direttrice di musei. Prima il Man di Nuoro, pensato come una pinacoteca e diventato il Museo d'arte contemporanea della Barbagia, poi il Mart di Rovereto, e poi di nuovo Nuoro con l'Istituto etnografico e ora Roma, in uno dei più bei musei della capitale. «È la frase di una donna - avverte subito - che ha radici nell'antropologia più remota. Mi ha folgorato, perché non citarla? Si potrebbe, ci sono tutte le condizioni favorevoli, c'è una strategia maschile priva di rischi, invece ci si rende conto che è finito il tempo in cui si può, che si rinvia a un altrove. Un'intuizione, uno scarto inaspettato».
La cito: è l'essere in anticipo sul proprio tempo, l'unico modo per essere contemporanea?
«Contemporaneo è una parola che genera fraintendimenti. Parliamo di presente. È difficile avere un doppio sguardo, dentro e fuori, bisogna stare in una posizione obliqua e sentire quello che avviene. Quel segno sul volto è evidente nel giorno in cui ci si accorge del cambiamento, che è sempre in atto. Occorre l'attitudine a mettersi in anticipo, che poi è il presente».
Torniamo a Nuoro. All'Isre, una bella deviazione dal Mart.
«Sono stati sei mesi inaspettati, incredibili, in cui sono stata felice, e mi dispiace andare via. La grazia più grande è fare le cose con passione e determinazione, condividendole con una piccola comunità che mi ha colto come una possibilità di cambiamento: attenti, critici nel senso più costruttivo della parola. Ci sono momenti in cui si ci si rimette in gioco, si ricomincia. Prima di lasciare il Mart, dove sono rimasta fino all'ultimo giorno, ho fatto molti concorsi e tra questi l'Isre, ed era quello di cui avevo bisogno perché mi ha permesso di fare, di riscoprire la vocazione alla ricerca di un istituto importantissimo per la Sardegna. Non pensiamolo solo come i musei Grazia Deledda, del Costume, l'archivio e la biblioteca, guardiamolo come strumento di servizio per la Regione. Penso all'assessorato all'Agricoltura e lo cito per primo perché riguarda cibo, benessere, longevità. Alle collaborazioni con l'Università. Al turismo culturale. So bene che le risorse di questo istituto non possono essere quelle di un tempo, per questo è necessario affiancare progetti nuovi a quelli già in essere».
Che forze diverse collaborino, è intrapresa non semplice in Sardegna.
«Si dice: bisogna fare rete, sistema. E poi si lascia andare. Invece si fa. E basta».
C'è un filo conduttore in queste esperienze, per alcuni versi distanti?
«Sono sempre dove sono, che diventa il centro del mondo. Mi hanno spesso chiesto come ho fatto a stare tredici anni a Nuoro, ma io non mi sono mai sentita in esilio, al contrario sono stata felice. Lascio che i luoghi mi parlino, ho bisogno di costruire un progetto perché solo così si può coinvolgere e travolgere».
Nella parola museo c'è staticità. Come si fa a dargli il soffio vitale, quello che calamita curiosità?
«Il museo non può essere altro da ciò che è, il luogo dove c'è il patrimonio materiale della cultura che noi mettiamo a disposizione dei visitatori di domani. Ma deve essere anche un luogo dove si può stare a giocare, fare delle attività. Non deve essere un luogo consolatorio, ma uno spazio che si abita, anche solo per un minuto. Intendo l'habitus latino che cambia la prospettiva. Roma in questo è esemplare: pensiamo all'Ara Pacis e all'opera di Richard Meier. Ci sarà un ordine cronologico ma si mescolano anche le carte».
Andando via dal Mart lei ha parlato di bisogno di proteggere la propria visione. Ci è riuscita? Qual è la sua visione sulla Gnam?
«Bruno Munari diceva che “la vera rivoluzione si fa se nessuno se ne accorge”. Non bisogna sacrificare la propria visione su troppi altari, si fa un passo indietro e si cerca uno spazio altrove. Per il resto, non sono ancora stata alla Galleria, esattamente come non ero stata all'Isre prima che fosse finito il mio tempo al Mart. Voglio che sia uno shock e lo faccio per una forma di protezione nei confronti di me stessa. Sono presente dove sono, profondamente innamorata di quello che sto facendo e farò fino alla fine. Ho cercato di indicare una strada».
La Regina Rossa dice ad Alice che bisogna pensare a sei cose impossibili prima di colazione. È un suo pensiero, segue una pratica?
«Ci sono frasi che ci accompagnano. Un po' come Walt Disney, se sogni puoi farlo. Posso pensare a una goccia nel mare, ma scelgo quella che scava la lapide. Noi possiamo incidere, bisogna chiedersi cose non scontate, non facili».
La Gnam era tra i desideri?
«Tra le domande che ho fatto a gennaio, oltre all'Isre, c'erano Brera e la Gnam. Pensavo che i tempi fossero più lunghi…Non mi sarei mai perdonata una rinuncia così importante. Ho accettato, incoraggiata, e vado via dopo una parentesi di sei mesi, felice».
Nella legge di stabilità ci sono più soldi per la cultura. Li dobbiamo spendere per rattoppare, fare cose nuove?
«Non ho ricette, so però una cosa che dice Achille Bonito Oliva: bisogna avere coraggio e non paura del fallimento. È così tardi che io credo che si debbano fare entrambe le cose».
Oggi alle 18 sarà a Cagliari, alla Fondazione del Banco di Sardegna, a parlare di terra di Giganti. Lo siamo?
«Tutti siamo nani sulle spalle di altri giganti, e scrutiamo l'orizzonte. Bisogna combattere l'inanità, le cose posson o cambiare, ascoltando, guardando altrove».
(Da "L'Unione Sarda")
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